Cara Prof,
scusa se ti do del tu, ma oggi proprio non posso
farne a meno.
Ricordi quando mi avvicinavo alla cattedra,
prima della lezione, per confidarti le mie pene? Avevo dagli undici ai tredici
anni, e i futili problemi di ragazzina mi sembravano insormontabili ostacoli
sulla strada della vita.
Pur essendone consapevole, tu mi incoraggiavi,
mi elargivi con generosità dei consigli preziosi, mi tiravi su il morale con le
tue parole piene di buonsenso, mai con condiscendenza, ma sempre con affetto
sincero.
E con affetto sincero ti ricordo: ti invio gli
auguri ad ogni festa comandata, e ti scrivo delle lettere. Mai come questa,
però. Questa è una lettera speciale, che ribadisce ciò che già sai, ma che di
tanto in tanto potresti aver dimenticato, o ignorato. Le chiacchiere sui miei
ex compagni di classe con cui riempio le lettere sono un modo per testimoniarti
ancora la mia stima e il mio affetto, immutato come se non fossero trascorsi
tanti, troppi anni.
Sei l’unica persona, oltre me, a possedere la
mia bibliografia completa, incluse le antologie di cui ho preso soltanto due
copie, una per me e una per te. Conosci bene il motivo: mi hai sempre
incoraggiato a scrivere, da quando ti presentai un tema con degli improbabili
omini gialli che vivevano in costruzioni piramidali fino al ‘libretto’ che
veniva consegnato agli alunni dopo la licenza media.
Il mio primissimo romanzo, ‘Quelli della III C’,
che parlava delle esperienze e dei sogni di tredicenni degli anni ’70, della
nostra classe e dei nostri insegnanti, andò disperso perché ci tenevo che lo
leggessi: la tua approvazione era tutto per me. Te lo mandai tramite un’amica,
e non ho mai nemmeno saputo se sia andato perso prima o dopo che tu lo abbia
letto. Oggi lo considererei di sicuro abominevole, scritto con lo stile di
un’adolescente sull’onda di ricordi ancora freschi che facevano bene al cuore,
ma mi sarebbe piaciuto poterlo conservare, per discuterne con te.
Per ricordare, insieme, le vicende accadute e
l’affetto che ci legava. Che ci lega tuttora.
Sono stata fortunata: ho avuto dei buoni
insegnanti. Non sempre, ma spesso. Alcuni ottimi, come te.
Ho cercato di fare tesoro non soltanto dei tuoi
insegnamenti, ma soprattutto del tuo insegnamento:
ama ciò che insegni, ama le persone alle quali insegni. Non ancora adulti, ma
nemmeno bambini, che a volte studiano per compiacerti, altre si ribellano
all’autorità che rappresenti. Chiedi molto, ma dai altrettanto. Sii tollerante,
ma poni dei limiti alla tolleranza.
Cerco di seguire il tuo esempio, e quello dei
docenti in gamba come te, ora che sono anch’io prof. Con la minuscola, perché
non posso paragonarmi a chi è riuscita a farmi amare persino il latino. A volte
mi scoraggio, altre mi galvanizzo; faccio quello che posso. A disposizione, per
ciascuna classe, ho tre ore settimanali, il mio bagaglio di conoscenze e
l’affetto che, nonostante tutto, mi lega a quegli strani esseri comunemente
chiamati adolescenti.
Ti rivedo ancora, con la tua torre di capelli
neri (la ‘cofana’, direbbe la Marchesini), spiegare che le mani corte
significano scarsa propensione alla generosità (parlavamo di qualsiasi
argomento: erano gli anni ’70). Confondendo corte con piccole, ti mostro le mie
mani, e ottengo la rassicurazione in cui speravo. Non ci siamo capiti, non
parlavo di mani come le tue, ma tozze. Sospiro di sollievo da parte mia,
sorriso dolce da parte tua.
Non c’era nessun collega, all’epoca, a
consigliare agli altri di non sorridere, come è successo a me. Si parlava, si
discuteva: politica, problemi sociali (non addomesticati, come accade oggi),
religione. I Prof come te insegnavano agli alunni a pensare. Ne ho incontrato
degli altri, anche all’Università. ‘Help me to think’, chiedevo loro, e venivo
ascoltata. Come mi ascoltavi tu, la prima della serie.
Ti ricordo ancora, bella come una giornata di
primavera, chiedere la penna o assegnare i compiti per casa in francese. A noi,
alunni del primo corso a scegliere come lingua straniera l’inglese.
Rivedo la tua gonna longuette svolazzare nel
vento mentre fai lezione in cortile, al centro di un gruppo di ragazzi seduti
sul muretto, che pendono dalle tue labbra.
Rivedo il tuo sorriso cancellare le mie angosce
adolescenziali, la tua mano dalle lunghe dita fluttuare mentre spieghi con
parole semplici un argomento particolarmente ostico, riuscendo a farlo
penetrare nelle nostre menti.
Mentre ripenso al nostro rapporto, lungo tre
anni, non posso fare a meno di ringraziarti ancora una volta, da prof a Prof.
Tu con la maiuscola, come maiuscola sei stata per noi della III C e per tanti
altri alunni che hanno avuto la fortuna di incontrarti lungo il loro cammino.
Con immutato affetto e stima, ti saluto.
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