In estate, giocavamo a pallone sulle aiuole
davanti agli edifici INA-CASA di Napoli est. La scuola era finita e liberi dai
compiti, potevamo giocare a pallone dalla mattina alla sera con l’unica
interruzione del pranzo a mezzogiorno, quando le nostre madri ci chiamavano dai
balconi con ripetute grida:
“Peppino,
sali subito sopra…”
“Angelino,
sali…”
“Lelluccio,
vieni subito qua…”
Qualcuno
rispondeva con un vaffanculo alla propria madre che non la finiva di strillare.
Ogni madre che ci chiamava dal balcone verso mezzogiorno, aveva una cadenza particolare,
perché nel palazzo, c’erano famiglie del potentino, del salernitano, del
frusinate e dei bassi di Napoli est, questi ultimi figli di sfollati a causa
della Seconda guerra mondiale.
A furia di giocare a pallone, l’erba del
prato era scomparsa, lasciando la polvere che si attaccava alle nostre
magliette inzuppate di sudore. Prima della partita, contavamo coi passi quanti
metri dovesse essere larga ogni porta che per paletti aveva una bassa pila di
pietre tufacee, raccattate da un edificio in costruzione. Allestite le porte,
nessuno voleva fare il portiere. Erano i più piccoli ad essere piazzati in
porta, oppure disposti a cerchio, si faceva il tocco. Si dava il conteggio: uno, due, tre…L’ultimo ad essere toccato restava per il primo tempo, in
porta. Nel secondo tempo, subentrava un volontario che si era stancato troppo,
o restava lo stesso di prima, con la promessa che nella prossima partita
avrebbe giocato all’attacco.
Tutti volevano fare il centravanti di
sfondamento, od in alternativa l’ala destra come Garrincha del Brasile. L’ala
sinistra era meno ambita, fino a che non cominciarono ad apparire in tivù
grossi bomber che da quella parte del campo facevano favolosi gol, come Gigi
Riva.
Negli anni Settanta, eravamo più grandicelli
e giocavamo in un vero campo sportivo, con le linee a bordo campo, quelle per
l’off side, gli angoli retti per il corner e la chiazza rotonda ben visibile
per i rigori. Agli estremi, c’erano vere
porte con le reti. Molti di noi avevano le scarpette vere, coi tacchetti di
cuoio sotto le suole che davano un’andatura imponente, come i soldati di Napoleone.
Il pallone era anche vero, di cuoio e duro da slogarsi le caviglie. Con le
rispettive divise di squadra, giocavamo nel campo sportivo dietro la vicina
chiesa, partecipando ai tornei rionali con la coppa placcata d’oro per la
squadra vincente. C’era un arbitro col fischietto e la divisa tutta nera.
C’erano due portieri titolari con la divisa anch’essa nera ed il numero uno,
stampato sulla schiena. C’era la foto ricordo dell’intera squadra, prima del
fischietto d’inizio e quelle scattate in azione, durante la partita. A volte, assisteva
uno sparuto pubblico, o un gruppo di ammiratrici a bordo campo.
Invece negli anni Sessanta, eravamo alunni
delle medie. Giocavamo nelle aiuole davanti al palazzo e nessuno voleva stare
in porta. Difficile anche affidare il ruolo dei terzini. Ognuno era convinto di
essere un centravanti di sfondamento, come in una squadra di serie A. Pensavamo
a Sivori, Pelé do Nascimento, Mazzola (che spesso faceva la mezz’ala destra),
Eusebio, Luis Vinicio, o uno più alla portata come Traspedini…Volevamo essere
come loro: dei veri centravanti di sfondamento. Chi aveva la palla al piede non
la passava e se l’azione sfumava, i compagni di squadra gli gridavano ch’era
troppo individualista. Gli gridavano che avrebbero fatto anche loro così, non
passandogli più il pallone.
Angelino abitava al terzo piano, scala B era
rispettato da tutti perché aveva il pallone: era il padrone del pallone. Se non lo vedevamo scendere in cortile,
andavamo a bussare a casa, al terzo piano. Rispondeva al citofono una voce
femminile: “Chi è?”
A
gara, impetravamo: “Può scendere, per favore, Angelino?”
Spesso,
era la sorellina a troncare le querule richieste con un secco no. Di
conseguenza, gridavamo da giù: “Angelinooo, scendi. Porta il pallone…”
Accadeva che si facesse la questua per il
pallone che correvamo ad acquistare alla merceria di don Michele o’ carpecato, nel vicino Rione Santa
Rosa. Erano palloni color arancione e costavano sulle 50 lire. Si faceva spesso
la questua, cinque lire a persona. Se si bucavano su una scaglia di vetro, si
potevano gonfiare con la siringa, occludendo la bucatura col mastice: la colla
filante per le gomme delle bici. Tutti nel ruolo di centravanti, accadevano le
ammucchiate davanti ad una delle due porte, come nel rugby. Il pallone
rimbalzava qua e là tra la selva delle scarpe scalcagnate. All’improvviso, c’era chi alla fine riusciva a
sferrare contro la porta avversaria il tiro risolutivo che il portiere non parava.
Esplodeva il grido trionfante: GOL! Nell’accanita baruffa, non si capiva chi
fosse stato l’autore del tiro. Qualcuno chiedeva: “Chi ha segnato?”
L’autore
del gol levava le mani al cielo, dicendo con orgoglio: “Io… Io ho segnato.”
Qualcuno
contestava: “E’ stato autogol…”
Un
altro tagliava corto: “E’ gol lo stesso.”
Uno
portava il conteggio e gridava: “Due a zero. Palla a centro.”
Qualcun altro cercava di contestare il gol,
perché in fuorigioco ed allora quello che aveva segnato s’impadroniva del
pallone, minacciando di sospendere la partita. Qualcuno della squadra opposta
gli rubava il pallone da sotto il braccio e diceva che era punizione dal
limite, non gol. Alla fine ci si metteva d’accordo: è gol e basta.
Per la squadra perdente, la colpa rimbalzava
sul portiere, rimasto impalato, senza tuffarsi nella polvere. C’era solo
Palladino che in porta, non del nostro rione intercetta a volo il tiro, come
Bugatti del Napoli. Palladino era un ragazzo con la faccia tutta mangiata dal
vaiolo che di rado veniva a giocare da noi e volontariamente si metteva in
porta. Tutti lo volevano in squadra, sia perché sceglieva di starsene in porta,
sia perché era bravo a parare i tiri a volo e tutto questo faceva la
differenza. Nelle nostre partite giornaliere, la palla carambolava senza tregua
tra gruppi di giocatori provetti. Grida e schiamazzi, richieste di ricevere al
momento la palla per il tiro risolutivo. Qualcuno esasperato gridava stronzo al compagno, perché non
manteneva le marcature strette. L’altro si riteneva un incompreso e rispondeva:
“Stronzo sei tu.”
Ci si spintonava, mentre la squadra che
stava vincendo se la rideva e faceva sberleffi. I perdenti si convincevano a
mettere la palla al centro col
desiderio della riscossa, mentre l’altra squadra si disponeva alla difesa, ma
attenta al contrattacco. Le ali e le mezz’ali ansimavano, piegate con le mani
sulle ginocchia, aspettando d’intercettare i passaggi di palla. Si disponevano
le marcature strette che poco dopo nessuno rispettava. Ripreso il gioco,
cominciavano i passaggi veloci, fino a portarsi davanti ad una delle due porte.
Avveniva una nuova baruffa di cosce e gambe impolverate. Il pallone
gironzolante frenetico tra le scarpette dei molti centravanti di sfondamento.
Dal CHAOS, usciva il tiro in porta, imparabile, secondo il portiere. Seguiva il
grido trionfante:
“Gol. Tre a zero. Palla a centro.”
I perdenti sbottavano: “Figli di zoccola.”
Correvano le parolacce contro le schiappe per
aver fatto segnare agli avversari il terzo gol. Il povero portiere non ne
poteva più. Tre gol subiti erano troppi. Mandava affanculo i suoi ed abbandonava il polveroso campo.
Bellissimo racconto. C'è da sperare che i candidati al premio Strega non copino, come spesso fanno.
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