domenica 14 febbraio 2016

IL COLORE DEL CIELO di Laura Silvestri


Il nostro non è stato un amore a prima vista. Quand’ero bambina, eri quella che viveva lontano da noi, che vedevo quasi soltanto alle feste comandate e pareva così giovane, troppo, per essere davvero una nonna. Eri sempre così bella, con i tuoi capelli “alla maschietta” e i vestiti chiassosi, lo smalto rosso sulle unghie e i braccialetti che tintinnavano a ogni gesto. Mi sembravi troppo presa dalla tua vita, perché potessi davvero far parte della mia, ma era il pensiero di una bambina e, si sa, i bambini sono un po’ egocentrici per natura. Non avrei immaginato, crescendo, cosa avresti finito per diventare per me.
Tutto ha avuto inizio in quelle vacanze al mare, io, mamma e tu, la nonna paterna dai modi stravaganti e senza peli sulla lingua. Papà ci raggiungeva nei week end, portandoci la spesa e migliorando di un bel po’ l’umore di mia madre, gentile ma un poco sofferente in quella vicinanza forzata con la suocera. È stato allora che ho iniziato a comprenderti, nonna. Non eri come la madre di mia madre, chioccia e protettiva come una vera donna di paese. Tu eri avventurosa e, quel che era più importante, volevi che anche io lo fossi. Non mi rimproveravi se correvo scendendo gli scalini di pietra che portavano alla spiaggia, non temevi che non facessi ritorno se mi allontanavo per comperare un gelato.
“Ecco i soldi, passero’,” mi dicevi tirando fuori un borsellino rosso. “Portajene uno pure a nonna, al limone”.
Ti piaceva farti bella, anche per te stessa: eri vedova già da vent’anni, ma non ti eri rassegnata a invecchiare. Andavamo a passeggio sul lungomare, la sera, per goderci la brezza profumata, e ci fermavamo davanti ai negozi di pietre dure, incantate come due bambine davanti alle vetrine colme di braccialetti di corallo e collane di perle.
“Lella, dì a nonna quale te piace,” mi dicevi con uno sguardo complice, e io indicavo col dito un ciondolo di turchese.
Tu sorridevi.
“È bello, ve’? Azzurro. Il colore del cielo”.
Inutile dire che alla fine della vacanza, se non si trattava proprio di quel pendente, c’era comunque qualcosa di nuovo attorno al mio polso, o infilato a un ditino.
Ma non è stato semplice come potrebbe apparire: non è a suon di regali che hai comperato il mio amore. Ci sono voluti anni per capire cosa mi paresse tanto diverso, e tanto bello, in te. Ogni volta che ti vedevo, mi domandavo come potessi mostrarti tanto spensierata, quando tutto attorno a te sembrava così difficile. Vivevi sola, lontano dai tuoi figli e dai nipoti, con la modesta pensione lasciata da nonno e i primi problemi di salute che iniziavano, allarmanti, a fare capolino. Ma non ti ho mai vista senza sorriso. Ti piaceva circondarti di persone amiche, invitare tutti a casa tua per Natale, festeggiare a ogni occasione. Quando preparavi da mangiare, cantavi sempre qualche canzone romana. Ed eri brava, anche se non lo sapevi. A volte io e papà ti venivamo dietro e tu, senza pensare, intonavi un controcanto, come dovevi aver imparato a fare con le tue sorelle quando da ragazze tornavate insieme dal lavoro nei campi.
Eri golosa, e ogni tanto papà ti sorprendeva a mangiare cioccolato di nascosto, e ti rimproverava. E tu ridevi, come se fosse stato lui il genitore che avesse colto il suo bambino nel bel mezzo di una marachella, e ti stringevi nelle spalle.
“Ah Gige’, che ce posso fa? Io ce camperei co ‘ste schifezze…” borbottavi prima di allontanarti per fare qualche altra cosa. Non ti fermavi mai, non ti perdevi mai d’animo, ed eri sempre sincera al punto da far mettere a papà le mani nei capelli.

Quando ti feci conoscere l’uomo che poi avrei sposato, sei stata tu a darmi la certezza che avessi finalmente trovato quello giusto.
“Brava passero’, questo sì che è un bel ragazzo, moro, robusto, benvestito…” mi dicesti prendendomi da parte e sussurrandomi nell’orecchio, con il sorriso di chi la sa lunga, “…mica come quell’artro”.
Non ti era mai piaciuto il mio precedente fidanzato, colpevole di una timidezza quasi paralizzante e di un fisico mingherlino che ti preoccupava e ti faceva sospettare che non fosse forte a sufficienza. Non lo era, in effetti, anche se la sua debolezza non stava nella corporatura, e tu non fosti sorpresa quando ci lasciammo. Forse non eri la nonna canonica, ma la saggezza non ti mancava.
Quando la mente iniziò ad abbandonarti eri ancora troppo giovane. Forse fu per questo che combattesti con tanta volontà per non piegarti alla malattia. Dimenticavi fatti da poco accaduti, a volte vedevi cose che non c’erano, ma ci ridevi su, quasi sempre. Cercavi di tenere la testa sveglia e, quando la domenica mattina ce ne andavamo a Porta Portese, tornavamo sempre cariche di cianfrusaglie, e di libri. Classici per me, romanzi d’amore per te, tanto semplici e melensi che papà storceva il naso solo a guardarne la copertina. Ma a te piacevano. Me li facevi scegliere, quando dimenticavi gli occhiali a casa.
“Prendimene uno bello, Lella de nonna. Romantico.”
E io sceglievo per te storie di dame e cavalieri, o più attuali, di giovani medici dai nobili ideali.
Più crescevo, e più stare accanto a te era naturale, era facile. Mi pareva di poter assorbire la tua forza soltanto rimanendoti vicina, guardandoti felice per una panchina al sole, per un gelato sul tuo adorato lungomare, per una passeggiata con i nipoti, anche se i tuoi passi, nelle scarpette color oro, si facevano più stanchi anno dopo anno. Te ne sei andata nel momento in cui non hai potuto più fare neppure quei piccoli passetti danzanti e un po’ buffi.
“Mamma, ma com’è che zoppichi?”, ti chiese un giorno papà.
“N’è niente, Gigè. Avrò intruppato”.
Avevi intruppato, e tante piccole fratture erano rimaste impresse sulle ossa della tua anca. Ferma a letto, hai perso quella luce che ti animava. Nel giro di pochi mesi sei volata via, e io non ho fatto neppure in tempo a dirti quanto importante tu fossi diventata per me. La mia nonna speciale, quella che la me stessa adulta aveva imparato ad amare.
Non c’eri quando a quel bel ragazzo moro ho detto sì. E quanto avrei voluto il conforto della fede, mentre posavo il mio bouquet sulla tua tomba, quanto avrei desiderato poter credere che un giorno ci saremmo rincontrate e io avrei potuto dirti tutto quello che mi era rimasto sulle labbra. Ma tuttora non lo credo, e l’unico modo che ho di scusarmi per ciò che non ho detto, è riunire tutti i parenti attorno al tavolo ogni volta che posso, e preparare da mangiare cantando, anche se non sono brava quanto te. Papà dice che più invecchio e più ti rassomiglio, che ho la tua stessa linguaccia e lo stesso scarso amore per il vestire sobrio. Per me, è il più grande dei complimenti. Ma c’è di meglio, c’è di più. Credevo di averti perduta per sempre, ma mi sono accorta con gioia che sbagliavo. Una parte di te è ancora qui, e la tengo fra le braccia per farla addormentare ogni sera. Se tu avessi avuto un nome soltanto un poco meno stravagante, stai pur certa che mia figlia l’avrebbe portato. Ma lei ha comunque tanto di te, nonna. Lo vedo nei suoi occhi, quando usciamo per una passeggiata e il suo viso si accende di gioia. Allora lei punta un ditino verso il cielo, mi prende la mano, e mi grida entusiasta “Mamma, guadda… blu!”. E io sorrido, nonostante quel sorriso abbia un gusto dolceamaro, e le accarezzo i riccioli scuri. “E’ bello, vero, amore di mamma? Azzurro. È il colore del cielo”.

2 commenti:

  1. Un cordiale saluto a Laura. Ancora un racconto della memoria... ancora un bel racconto.

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  2. Grazie Paolo,
    è stato un piacere e un onore poter condividere questi ricordi sulle pagine del tuo blog.
    Un saluto,
    Laura

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