domenica 28 febbraio 2016

DOVE ANDREMO? Di Sandra Carresi


Dove andremo
così bagnati,
sporchi, umiliati,
così poco amati,
così protagonisti
di questi tempi?
Dove andremo?
Senza l’impegno di tutti
noi, esseri umani
scappati?
Che ne sarà
di questa lotta tra poveri
mentre il Mondo
dei potenti volta lo sguardo
da un’altra parte.
Dove andremo?
Forse, solo in scena.

martedì 23 febbraio 2016

CUORE DI DONNA di Teresa Regna

Ho un cuore di donna, ormai.
Il mio cuore ha conosciuto l’amicizia, quella autentica, che dona senza chiedere nulla in cambio, che si rinnova ad ogni sguardo e ad ogni abbraccio, che pone al di sopra di ogni cosa la felicità dell’altro. Anche a costo di tradire la fiducia che è stata riposta in noi da parte di coloro dai quali dipendiamo per il vitto, l’alloggio e l’affetto. La nutrice mi è amica: mi elargisce i suoi consigli, mi porge il suo aiuto, mi consola con il suo affetto.
Il mio cuore ha conosciuto le profferte amorose, quelle che i genitori di un giovane fanno ai genitori di una fanciulla. Quando la madre della fanciulla le avrà spiegato i fatti della vita, ella accetterà di andare sposa al pretendente, che l’ha intravista appena, o che conosce di lei soltanto le virtù che decantano i parenti più stretti. Paride mi ha chiesto in moglie, senza nemmeno ipotizzare che potessi non accettare: una fanciulla a modo obbedisce al volere dei genitori, e più in là a quello del marito a lei destinato, senza protestare. Evidentemente, non sono mai stata una fanciulla a modo. In ogni caso, ora non sono più una fanciulla.
Il mio cuore ha conosciuto l’affetto, quello che fa rischiare in prima persona, senza tenere in alcun conto le conseguenze dei propri gesti, che rende complici prima ancora che alleati, che si rivela nel momento del bisogno, che entra nella vita dell’altro come un raggio di sole in un pomeriggio carico di nubi. Un uomo di Dio, di nome Lorenzo, ha rinnegato l’obbedienza dovuta ai suoi patroni per obbedire ad una legge più alta: la legge dell’amore. Ha agito in maniera sconsiderata, mettendo in pericolo il proprio ministero e finanche la propria incolumità fisica, per offrire la sua complicità ad una fanciulla alla quale è affezionato. Mi ha unito in matrimonio con il mio innamorato, senza il consenso dei miei genitori né quello dei suoi superiori, e mi ha fornito  la  pozione  che  ho  utilizzato   per   tentare   un   ultimo stratagemma. Per non essere costretta a sposare Paride, io che sono già maritata, secondo la legge di Dio e quella dell’amore. Secondo Padre Lorenzo, sono la stessa cosa, ma io comincio a dubitarne.
Il mio cuore ha conosciuto l’amore. Il suo nome è Romeo, e il suo cognome è maledetto da anni e anni di inimicizia e uccisioni, di rivalità e incomprensioni. Averlo rinnegato per amor mio non gli è servito ad evitare l’espulsione dalla città: la colpa dell’assassinio macchia la sua coscienza. Eppure egli mi ha permesso di sperimentare il sentimento più elevato, più nobile e più pericoloso, almeno per me: l’amore vero. Le nostre anime si sono unite nell’attimo stesso in cui i nostri occhi si sono incontrati. La maschera dell’inimicizia è caduta, calpestata e negletta dal fuoco che nasceva nei nostri cuori. Ci siamo spogliati dei nostri cognomi, delle convenzioni, e dell’ipocrisia. Ci siamo riconosciuti, come se, da sempre, ciascuno di noi attendesse l’incontro con l’altro. E l’amore è sbocciato, fragile come un fiore che buca la neve della mente eppure solido come un albero radicato nelle praterie dell’anima.
Ha conosciuto tutto questo, il mio cuore, rendendo donna la fanciulla che dimorava dentro di me. Ho abbandonato le bambole, le carezze materne, gli ammonimenti paterni, indossando gli abiti di una sposa. Ho sciolto i miei capelli per la gioia di Romeo.  Quando mi ha accolto tra le sue braccia ho conosciuto la felicità.
Avrebbe abbandonato persino i genitori, i familiari, la stessa Verona, il mio cuore innamorato, se il fato non avesse deciso diversamente. Lo stratagemma escogitato dal buon Padre Lorenzo non ha avuto l’esito sperato. Il mio amato sposo non ha compreso che la donna distesa in terra era morta soltanto in apparenza, e si è tolto la vita. Ora giace ai miei piedi, freddo e scomposto dal bacio della nera signora.
Posso io esimermi dall’imitare il medesimo gesto  da  lui  compiuto per amor mio? Se tornassi a casa, fingendo di essere all’oscuro di tutto, e accettassi di sposare Paride, sarei ancora in grado di osservare la mia immagine allo specchio senza rabbrividire di vergogna e sgomento? Sono una donna o una bambina terrorizzata dal buio sentiero della morte? Romeo l’ha percorso, e anch’io lo percorrerò. Senza tremare, senza aver timore, lo seguirò nel mondo delle ombre. Il mio cuore farà quest’ultima esperienza: la morte.
Se Iddio Misericordioso vorrà avere pietà delle anime di due innamorati, sposati secondo il vincolo della Sua Chiesa, saremo ricongiunti nell’aldilà. In caso contrario, bruceremo all’Inferno.
Tuttavia, pur in mezzo ai tormenti, saremo insieme. Per sempre. Scontando il peccato del suicidio, beninteso, non quello di esserci amati.
L’amore, infatti, non è peccato: è vita, è gioia, è estasi. Ho vissuto una breve esistenza da fanciulla, e un’ancor più breve parentesi da donna, ma se la Vergine Madre mi concederà la Sua Grazia, non cesserò di benedirLa perché mi ha permesso di incontrare l’amore. Non vi è dono più grande, al mondo.
Confido che le donne  delle  generazioni  future  non  saranno vincolate da inimicizie familiari né da obblighi sociali, e potranno scegliere liberamente l’uomo da sposare. Possano esse innamorarsi e vivere il loro amore alla luce del sole, benedette da Dio e dai loro parenti. Giulietta che rinnegò la propria casata per amore le benedirà sempre, ovunque sarà.
Dopo che avrò dato il bacio d’addio a mio marito, il cuore che batte soltanto per lui interromperà il suo monotono ticchettio per addormentarsi nel sonno che non ha mai fine. Mi adagerò accanto a Romeo, come una moglie che riposa accanto al suo sposo, e se ne avrò la forza stringerò per l’ultima volta la sua mano ormai gelida. Devo farlo: ho un cuore di donna.
 

sabato 20 febbraio 2016

DUE NOVEMBRE di Paolo Secondini

La nonna accende due ceri sul davanzale della finestra, piccoli e gialli come la polpa di un melone. La loro fiammella tremola all’aria della sera, si contorce, si assottiglia, quasi si estingue, si ravviva, tremola ancora.
«Nonna,» le chiedo, «perché quei ceri?»
«Per rischiarare il cammino ai defunti che vanno in processione. Tu non li vedi, ma loro son lì, nella strada, e vedono te. Tu non li senti, ma cantano in coro le lodi del Signore.»
Il pensiero di essere visto dai defunti, che mi immagino orribilmente spettrali, mi atterrisce.
Con il cuore che batte all’impazzata mi ritraggo dalla finestra e stringo le braccia attorno alla vita della nonna, premendo il mio viso contro il suo petto rassicurante. Trattengo il respiro, chiudo gli occhi, serro le labbra. Dopo un poco sento la mano di lei carezzarmi i capelli, la sua voce parlarmi con dolcezza:
«Non temere, piccolo mio! I morti non sono cattivi, non fanno alcun male. Si trovano tutti nella grazia di Dio.»
Le sue dita scorrono soavemente tra i riccioli della mia testa.
Non del tutto tranquillizzato, mi discosto dal corpo della nonna e torno alla finestra. Timidamente getto lo sguardo nella strada, a destra e a sinistra…
Non vedo che ombre serene della sera.
«Ma perché i morti vanno in processione?» domando apprensivo. «Cosa vogliono, nonna?»
Mi accarezza di nuovo i capelli poi, con voce calma, soave:
«Il due novembre,» dice, «essi percorrono i luoghi in cui vissero un tempo, per rivedere le strade, le case, i loro cari… Non vogliono altro che noi siamo buoni, e pregano tanto per la nostra salvezza.»
«Oh!» l’esclamazione mi sfugge di bocca: sembra un suono lontano, che non mi appartiene.
Ella mi prende la faccia tra le mani e, per un istante, mi fissa negli occhi, quindi si curva a baciarmi sulla guancia, sulla fronte. «Piccolo mio,» sussurra infine, «la nonna ti vuol tanto bene. È qui con te. Ella ti stringe tra le braccia. Ma fino a quando?» Rimane un momento in silenzio, per soffocare un tremito lieve nella voce. «Un giorno,» aggiunge, «accenderai anche tu dei ceri sul davanzale della finestra… li accenderai per la nonna.»

giovedì 18 febbraio 2016

LA TELEVISIONE di Giuseppe Novellino

Questa sera guarderò qualcosa alla televisione.
Mi è venuta la voglia di spararmi un talk-show, un dibattito politico o un bel documentario sugli animali.
Accendo. Sullo schermo compare la seguente scritta:
È stato trovato un nuovo canale DVB.
Con OK aggiungi un nuovo canale.
Con Exit esci da questa funzione
Naturalmente esco. Sono stufo di aggiungere canali, quando si vedono a stento quelli che ci sono già. Ho da poco comprato un moderno televisore con decoder incorporato, ma comincio ad avere il sospetto che sia già obsoleto. Insomma, ho speso dei quattrini per vedere male ciò che prima vedevo bene gratis.
Funzionano correttamente solo i canali di Mediaset e quelli specializzati in televendite. Gli altri non sono accessibili, o risultano disturbati. Dicono, infatti, che i lavori del digitale terrestre sono in corso e i segnali vengono emessi con intensità variabile e incostante. Sarà!
Questa sera potrei solo scegliere tra intrattenimenti demenziali, vendite di materassi, reality, dibattiti sportivi o telefilm per teenagers. 
Rinuncio. Spengo l’apparecchio e rimango così, davanti allo schermo buio.
- Ma che ce ne facciamo di un televisore?
- Oh bella, per guardare i programmi.
- Ma dicono che non si vede ancora niente.
- Devi avere pazienza, Wanda.
- E poi, nessuno ce l’ha, un televisore, in tutto il quartiere.
- Il negoziante mi ha detto che siamo in dieci, in tutta la città, a possedere un apparecchio tv.
- A volte non ti capisco, Antonio!
- Mi sa che sei tu a non capire il progresso, Wanda.
Il dialogo avveniva una sera del maggio 1954. Papà aveva comprato un televisore da diciassette pollici e aveva dato l’annuncio alla mamma. Quella sera però lei era andata a letto contrariata, con un po’ di ansia al pensiero delle rate che avrebbero dovuto pagare.
Ma quando l’apparecchio fu consegnato, il pomeriggio del giorno successivo, cominciò a ricredersi. Come era capitato a me, anche la mamma doveva essere stata colpita da quella scatola di lucido compensato con schermo bombato e manopole: un aggeggio veramente avveniristico, che prometteva sorprese.
Non si vedeva niente, ma era tanto bello accenderlo e spegnerlo, ammirare la neve luminosa che si accompagnava a quel fruscio misterioso. Il segnale, a Sondrio, non era ancora arrivato, ma si aspettava per la fine dell’anno.
Così, la mamma trasformò provvisoriamente l’apparecchio tv in una specie di mobile: mise sopra un centrino ricamato che faceva da base per un vistoso vaso di fiori. Ci stava bene, nell’angolo del modesto salottino.
Finalmente il giorno tanto atteso: il segnale, con quasi un anno di ritardo, era arrivato nella nostra provincia.
Quella sera mio padre, elettrizzato, disse che l’appuntamento era per le nove e che si sarebbe visto finalmente qualcosa.
- Ma che cosa? – chiesi io.
- È una sorpresa, Giusè.
Papà non stava più nella pelle e suggerì a mia madre di invitare qualcun altro del condominio. Lei acconsentì e fece venire le famiglie Bordoni e Rossi: sette persone in tutto, ciascuna con la propria sedia.
Così guardammo il monoscopio. Prima, accompagnato da un monotono e un po’ sinistro ronzio, poi da un movimentato pezzo sinfonico.
Passata la sorpresa iniziale, la visione si rivelò piuttosto noiosa. I primi a stancarsi furono i miei fratellini. Mia madre si esibiva in esclamazioni di stupore, accompagnate da quelle della signora Mina, mentre il signor Bordoni ben presto cominciò a sbadigliare in modo incontrollato. L’ultimo a tediarsi fu mio padre. Stava seduto rigidamente sull’orlo di una sedia, ogni tanto si alzava e andava a regolare le manopole dell’audio e del contrasto. 
Da quella sera, il televisore cessò di essere un semplice pezzo d’arredamento e divenne, anche per la nostra famiglia, quello strumento che diverte, intrattiene, informa, addormenta, fa incazzare, stordisce ed emoziona.
La prima trasmissione che la famiglia cominciò a guardare con regolarità fu “Lascia o raddoppia”. Ogni giovedì sera, arrivavano in casa nostra le famiglie Bordoni e Rossi, sempre con tanto di sedie, stipavano il nostro salottino e seguivano con noi le imprese dei concorrenti, i gesti e le parole di Mike Buongiorno.
Poi c’era la “TV dei ragazzi”. Ogni pomeriggio, tornato da scuola, facevo merenda con pane e marmellata, mi mettevo davanti allo schermo per godermi il Mago Zurlì e i suoi fantastici mimi.
Mio padre guardava il telegiornale, e in quei momenti non voleva essere disturbato.
Ricordo che nell’ottobre del ’62, durante la crisi di Cuba, ascoltava le notizie e si aspettava la fine del mondo. Ma l’apparecchio, una di quelle sere, era disturbato e lui non riusciva a regolarlo. Si aspettava la notizia di come avrebbe reagito Kennedy al puntiglio sovietico. Allora diede due poderose pacche sulla cassa. E quello si mise effettivamente a posto, come se fosse stato impressionato dal nervosismo del suo proprietario.
Mia madre andava pazza per la serata di prosa, il venerdì, e per il romanzo sceneggiato, la domenica. Puntualmente si metteva davanti ai programmi di varietà del sabato sera: “Il musichiere”, “Un due tre” , “L’amico del giaguaro”, “Studio uno”, “Biblioteca di studio uno”, “Canzonissima”. E poi, naturalmente, c’era il Festival di San Remo.
Insomma la televisione era per noi un’amica un po’ invadente che distraeva,  divertiva, istruiva. Funzionava sempre. Gli eventuali inconvenienti di ricezione erano come il mal di pancia dei bambini. Andavano e venivano con facilità, al punto che nessuno ci faceva caso. Se poi i programmi venivano interrotti, usciva una scritta in stampatello che diceva: “Le trasmissioni saranno riprese il più presto possibile. Ci scusiamo per il disturbo”.
Tra una rappresentazione e l’altra potevano esserci dei ritardi. Allora apparivano sullo schermo paesaggi d’Italia, o monumenti famosi, accompagnati dalla parola “Intervallo” e da una musica di arpa.
Il mondo della televisione era un mondo sicuro, codificato, e procedeva parallelo a quello reale fatto di fatiche e problematiche quotidiane.
Esco dai miei pensieri e guardo lo schermo panoramico, al plasma, che mi sta di fronte. Afferro il telecomando e riaccendo.
È stato trovato un nuovo canale DVB.
Con OK aggiungi un nuovo canale.
Con exit esci da questa funzione”.
Poi azzardo un po’ di zapping.
Niente, la maggior parte dei canali risulta disturbata o non disponibile.
Quello che posso vedere non mi interessa.
Spengo l’apparecchio.
Questa sera del maggio 2013, la televisione serve a nulla.
    

martedì 16 febbraio 2016

PARTITA DI CALCIO A NAPOLI EST di Giuseppe C. Budetta

In estate, giocavamo a pallone sulle aiuole davanti agli edifici INA-CASA di Napoli est. La scuola era finita e liberi dai compiti, potevamo giocare a pallone dalla mattina alla sera con l’unica interruzione del pranzo a mezzogiorno, quando le nostre madri ci chiamavano dai balconi con ripetute grida:
“Peppino, sali subito sopra…”
“Angelino, sali…”
“Lelluccio, vieni subito qua…”
Qualcuno rispondeva con un vaffanculo alla propria madre che non la finiva di strillare. Ogni madre che ci chiamava dal balcone verso mezzogiorno, aveva una cadenza particolare, perché nel palazzo, c’erano famiglie del potentino, del salernitano, del frusinate e dei bassi di Napoli est, questi ultimi figli di sfollati a causa della Seconda guerra mondiale.   
A furia di giocare a pallone, l’erba del prato era scomparsa, lasciando la polvere che si attaccava alle nostre magliette inzuppate di sudore. Prima della partita, contavamo coi passi quanti metri dovesse essere larga ogni porta che per paletti aveva una bassa pila di pietre tufacee, raccattate da un edificio in costruzione. Allestite le porte, nessuno voleva fare il portiere. Erano i più piccoli ad essere piazzati in porta, oppure disposti a cerchio, si faceva il tocco. Si dava il conteggio: uno, due, tre…L’ultimo ad essere toccato restava per il primo tempo, in porta. Nel secondo tempo, subentrava un volontario che si era stancato troppo, o restava lo stesso di prima, con la promessa che nella prossima partita avrebbe giocato all’attacco.
Tutti volevano fare il centravanti di sfondamento, od in alternativa l’ala destra come Garrincha del Brasile. L’ala sinistra era meno ambita, fino a che non cominciarono ad apparire in tivù grossi bomber che da quella parte del campo facevano favolosi gol, come Gigi Riva.
Negli anni Settanta, eravamo più grandicelli e giocavamo in un vero campo sportivo, con le linee a bordo campo, quelle per l’off side, gli angoli retti per il corner e la chiazza rotonda ben visibile per i rigori.  Agli estremi, c’erano vere porte con le reti. Molti di noi avevano le scarpette vere, coi tacchetti di cuoio sotto le suole che davano un’andatura imponente, come i soldati di Napoleone. Il pallone era anche vero, di cuoio e duro da slogarsi le caviglie. Con le rispettive divise di squadra, giocavamo nel campo sportivo dietro la vicina chiesa, partecipando ai tornei rionali con la coppa placcata d’oro per la squadra vincente. C’era un arbitro col fischietto e la divisa tutta nera. C’erano due portieri titolari con la divisa anch’essa nera ed il numero uno, stampato sulla schiena. C’era la foto ricordo dell’intera squadra, prima del fischietto d’inizio e quelle scattate in azione, durante la partita. A volte, assisteva uno sparuto pubblico, o un gruppo di ammiratrici a bordo campo.
Invece negli anni Sessanta, eravamo alunni delle medie. Giocavamo nelle aiuole davanti al palazzo e nessuno voleva stare in porta. Difficile anche affidare il ruolo dei terzini. Ognuno era convinto di essere un centravanti di sfondamento, come in una squadra di serie A. Pensavamo a Sivori, Pelé do Nascimento, Mazzola (che spesso faceva la mezz’ala destra), Eusebio, Luis Vinicio, o uno più alla portata come Traspedini…Volevamo essere come loro: dei veri centravanti di sfondamento. Chi aveva la palla al piede non la passava e se l’azione sfumava, i compagni di squadra gli gridavano ch’era troppo individualista. Gli gridavano che avrebbero fatto anche loro così, non passandogli più il pallone.
 Angelino abitava al terzo piano, scala B era rispettato da tutti perché aveva il pallone: era il padrone del pallone. Se non lo vedevamo scendere in cortile, andavamo a bussare a casa, al terzo piano. Rispondeva al citofono una voce femminile: “Chi è?”
A gara, impetravamo: “Può scendere, per favore, Angelino?”
Spesso, era la sorellina a troncare le querule richieste con un secco no. Di conseguenza, gridavamo da giù: “Angelinooo, scendi. Porta il pallone…”
Accadeva che si facesse la questua per il pallone che correvamo ad acquistare alla merceria di don Michele o’ carpecato, nel vicino Rione Santa Rosa. Erano palloni color arancione e costavano sulle 50 lire. Si faceva spesso la questua, cinque lire a persona. Se si bucavano su una scaglia di vetro, si potevano gonfiare con la siringa, occludendo la bucatura col mastice: la colla filante per le gomme delle bici. Tutti nel ruolo di centravanti, accadevano le ammucchiate davanti ad una delle due porte, come nel rugby. Il pallone rimbalzava qua e là tra la selva delle scarpe scalcagnate. All’improvviso, c’era chi alla fine riusciva a sferrare contro la porta avversaria il tiro risolutivo che il portiere non parava. Esplodeva il grido trionfante: GOL! Nell’accanita baruffa, non si capiva chi fosse stato l’autore del tiro. Qualcuno chiedeva: “Chi ha segnato?”
L’autore del gol levava le mani al cielo, dicendo con orgoglio: “Io… Io ho segnato.”
Qualcuno contestava: “E’ stato autogol…”
Un altro tagliava corto: “E’ gol lo stesso.”
Uno portava il conteggio e gridava: “Due a zero. Palla a centro.”
Qualcun altro cercava di contestare il gol, perché in fuorigioco ed allora quello che aveva segnato s’impadroniva del pallone, minacciando di sospendere la partita. Qualcuno della squadra opposta gli rubava il pallone da sotto il braccio e diceva che era punizione dal limite, non gol. Alla fine ci si metteva d’accordo: è gol e basta. 
Per la squadra perdente, la colpa rimbalzava sul portiere, rimasto impalato, senza tuffarsi nella polvere. C’era solo Palladino che in porta, non del nostro rione intercetta a volo il tiro, come Bugatti del Napoli. Palladino era un ragazzo con la faccia tutta mangiata dal vaiolo che di rado veniva a giocare da noi e volontariamente si metteva in porta. Tutti lo volevano in squadra, sia perché sceglieva di starsene in porta, sia perché era bravo a parare i tiri a volo e tutto questo faceva la differenza. Nelle nostre partite giornaliere, la palla carambolava senza tregua tra gruppi di giocatori provetti. Grida e schiamazzi, richieste di ricevere al momento la palla per il tiro risolutivo. Qualcuno esasperato gridava stronzo al compagno, perché non manteneva le marcature strette. L’altro si riteneva un incompreso e rispondeva: “Stronzo sei tu.”
Ci si spintonava, mentre la squadra che stava vincendo se la rideva e faceva sberleffi. I perdenti si convincevano a mettere la palla al centro col desiderio della riscossa, mentre l’altra squadra si disponeva alla difesa, ma attenta al contrattacco. Le ali e le mezz’ali ansimavano, piegate con le mani sulle ginocchia, aspettando d’intercettare i passaggi di palla. Si disponevano le marcature strette che poco dopo nessuno rispettava. Ripreso il gioco, cominciavano i passaggi veloci, fino a portarsi davanti ad una delle due porte. Avveniva una nuova baruffa di cosce e gambe impolverate. Il pallone gironzolante frenetico tra le scarpette dei molti centravanti di sfondamento. Dal CHAOS, usciva il tiro in porta, imparabile, secondo il portiere. Seguiva il grido trionfante:
“Gol. Tre a zero. Palla a centro.”
I perdenti sbottavano: “Figli di zoccola.”
Correvano le parolacce contro le schiappe per aver fatto segnare agli avversari il terzo gol. Il povero portiere non ne poteva più. Tre gol subiti erano troppi. Mandava affanculo i suoi ed abbandonava il polveroso campo.    

domenica 14 febbraio 2016

IL COLORE DEL CIELO di Laura Silvestri


Il nostro non è stato un amore a prima vista. Quand’ero bambina, eri quella che viveva lontano da noi, che vedevo quasi soltanto alle feste comandate e pareva così giovane, troppo, per essere davvero una nonna. Eri sempre così bella, con i tuoi capelli “alla maschietta” e i vestiti chiassosi, lo smalto rosso sulle unghie e i braccialetti che tintinnavano a ogni gesto. Mi sembravi troppo presa dalla tua vita, perché potessi davvero far parte della mia, ma era il pensiero di una bambina e, si sa, i bambini sono un po’ egocentrici per natura. Non avrei immaginato, crescendo, cosa avresti finito per diventare per me.
Tutto ha avuto inizio in quelle vacanze al mare, io, mamma e tu, la nonna paterna dai modi stravaganti e senza peli sulla lingua. Papà ci raggiungeva nei week end, portandoci la spesa e migliorando di un bel po’ l’umore di mia madre, gentile ma un poco sofferente in quella vicinanza forzata con la suocera. È stato allora che ho iniziato a comprenderti, nonna. Non eri come la madre di mia madre, chioccia e protettiva come una vera donna di paese. Tu eri avventurosa e, quel che era più importante, volevi che anche io lo fossi. Non mi rimproveravi se correvo scendendo gli scalini di pietra che portavano alla spiaggia, non temevi che non facessi ritorno se mi allontanavo per comperare un gelato.
“Ecco i soldi, passero’,” mi dicevi tirando fuori un borsellino rosso. “Portajene uno pure a nonna, al limone”.
Ti piaceva farti bella, anche per te stessa: eri vedova già da vent’anni, ma non ti eri rassegnata a invecchiare. Andavamo a passeggio sul lungomare, la sera, per goderci la brezza profumata, e ci fermavamo davanti ai negozi di pietre dure, incantate come due bambine davanti alle vetrine colme di braccialetti di corallo e collane di perle.
“Lella, dì a nonna quale te piace,” mi dicevi con uno sguardo complice, e io indicavo col dito un ciondolo di turchese.
Tu sorridevi.
“È bello, ve’? Azzurro. Il colore del cielo”.
Inutile dire che alla fine della vacanza, se non si trattava proprio di quel pendente, c’era comunque qualcosa di nuovo attorno al mio polso, o infilato a un ditino.
Ma non è stato semplice come potrebbe apparire: non è a suon di regali che hai comperato il mio amore. Ci sono voluti anni per capire cosa mi paresse tanto diverso, e tanto bello, in te. Ogni volta che ti vedevo, mi domandavo come potessi mostrarti tanto spensierata, quando tutto attorno a te sembrava così difficile. Vivevi sola, lontano dai tuoi figli e dai nipoti, con la modesta pensione lasciata da nonno e i primi problemi di salute che iniziavano, allarmanti, a fare capolino. Ma non ti ho mai vista senza sorriso. Ti piaceva circondarti di persone amiche, invitare tutti a casa tua per Natale, festeggiare a ogni occasione. Quando preparavi da mangiare, cantavi sempre qualche canzone romana. Ed eri brava, anche se non lo sapevi. A volte io e papà ti venivamo dietro e tu, senza pensare, intonavi un controcanto, come dovevi aver imparato a fare con le tue sorelle quando da ragazze tornavate insieme dal lavoro nei campi.
Eri golosa, e ogni tanto papà ti sorprendeva a mangiare cioccolato di nascosto, e ti rimproverava. E tu ridevi, come se fosse stato lui il genitore che avesse colto il suo bambino nel bel mezzo di una marachella, e ti stringevi nelle spalle.
“Ah Gige’, che ce posso fa? Io ce camperei co ‘ste schifezze…” borbottavi prima di allontanarti per fare qualche altra cosa. Non ti fermavi mai, non ti perdevi mai d’animo, ed eri sempre sincera al punto da far mettere a papà le mani nei capelli.

Quando ti feci conoscere l’uomo che poi avrei sposato, sei stata tu a darmi la certezza che avessi finalmente trovato quello giusto.
“Brava passero’, questo sì che è un bel ragazzo, moro, robusto, benvestito…” mi dicesti prendendomi da parte e sussurrandomi nell’orecchio, con il sorriso di chi la sa lunga, “…mica come quell’artro”.
Non ti era mai piaciuto il mio precedente fidanzato, colpevole di una timidezza quasi paralizzante e di un fisico mingherlino che ti preoccupava e ti faceva sospettare che non fosse forte a sufficienza. Non lo era, in effetti, anche se la sua debolezza non stava nella corporatura, e tu non fosti sorpresa quando ci lasciammo. Forse non eri la nonna canonica, ma la saggezza non ti mancava.
Quando la mente iniziò ad abbandonarti eri ancora troppo giovane. Forse fu per questo che combattesti con tanta volontà per non piegarti alla malattia. Dimenticavi fatti da poco accaduti, a volte vedevi cose che non c’erano, ma ci ridevi su, quasi sempre. Cercavi di tenere la testa sveglia e, quando la domenica mattina ce ne andavamo a Porta Portese, tornavamo sempre cariche di cianfrusaglie, e di libri. Classici per me, romanzi d’amore per te, tanto semplici e melensi che papà storceva il naso solo a guardarne la copertina. Ma a te piacevano. Me li facevi scegliere, quando dimenticavi gli occhiali a casa.
“Prendimene uno bello, Lella de nonna. Romantico.”
E io sceglievo per te storie di dame e cavalieri, o più attuali, di giovani medici dai nobili ideali.
Più crescevo, e più stare accanto a te era naturale, era facile. Mi pareva di poter assorbire la tua forza soltanto rimanendoti vicina, guardandoti felice per una panchina al sole, per un gelato sul tuo adorato lungomare, per una passeggiata con i nipoti, anche se i tuoi passi, nelle scarpette color oro, si facevano più stanchi anno dopo anno. Te ne sei andata nel momento in cui non hai potuto più fare neppure quei piccoli passetti danzanti e un po’ buffi.
“Mamma, ma com’è che zoppichi?”, ti chiese un giorno papà.
“N’è niente, Gigè. Avrò intruppato”.
Avevi intruppato, e tante piccole fratture erano rimaste impresse sulle ossa della tua anca. Ferma a letto, hai perso quella luce che ti animava. Nel giro di pochi mesi sei volata via, e io non ho fatto neppure in tempo a dirti quanto importante tu fossi diventata per me. La mia nonna speciale, quella che la me stessa adulta aveva imparato ad amare.
Non c’eri quando a quel bel ragazzo moro ho detto sì. E quanto avrei voluto il conforto della fede, mentre posavo il mio bouquet sulla tua tomba, quanto avrei desiderato poter credere che un giorno ci saremmo rincontrate e io avrei potuto dirti tutto quello che mi era rimasto sulle labbra. Ma tuttora non lo credo, e l’unico modo che ho di scusarmi per ciò che non ho detto, è riunire tutti i parenti attorno al tavolo ogni volta che posso, e preparare da mangiare cantando, anche se non sono brava quanto te. Papà dice che più invecchio e più ti rassomiglio, che ho la tua stessa linguaccia e lo stesso scarso amore per il vestire sobrio. Per me, è il più grande dei complimenti. Ma c’è di meglio, c’è di più. Credevo di averti perduta per sempre, ma mi sono accorta con gioia che sbagliavo. Una parte di te è ancora qui, e la tengo fra le braccia per farla addormentare ogni sera. Se tu avessi avuto un nome soltanto un poco meno stravagante, stai pur certa che mia figlia l’avrebbe portato. Ma lei ha comunque tanto di te, nonna. Lo vedo nei suoi occhi, quando usciamo per una passeggiata e il suo viso si accende di gioia. Allora lei punta un ditino verso il cielo, mi prende la mano, e mi grida entusiasta “Mamma, guadda… blu!”. E io sorrido, nonostante quel sorriso abbia un gusto dolceamaro, e le accarezzo i riccioli scuri. “E’ bello, vero, amore di mamma? Azzurro. È il colore del cielo”.

venerdì 12 febbraio 2016

IL SUONO DEGLI ZOCCOLI di Francesco Bisesti

Se c’era una cosa che aveva un fascino particolare, e che suscitava in me allegria e gioia di vivere, era il ticchettare degli zoccoli dei passanti lungo via Agrippina: quella stradina che, a Bacoli, porta da via Roma fin giù al mare attraverso quella che oggi è conosciuta da tutti come via della Spiaggia.
Non che sia cambiato molto da allora: le casette si spingono ancora a curiosare sulla strada lungo l’intero tragitto, le piante odorose di oleandro e i colori delle bouganville ti accompagnano quasi fin sulla riva. Una cosa certamente è diversa: il selciato. In luogo dei sampietrini di oggi, il fondo stradale che ricordo era allora una amalgama, di colore grigio chiaro, fatta di cemento e ciottoli di fiume che, senza spigoli, affioravano delicatamente in superficie creando piccoli dislivelli. Era soltanto questa la ragione per la quale gli zoccoli di legno producevano quel gradevole suono che, puntualmente, ogni anno che passava, serviva a ricondurmi - alla fine di un anno scolastico - all’inizio della vacanza e di un lungo periodo di svago e di meritato riposo.
I richiami epici dell’Eneide e dell’Odissea, che permeano quel territorio, pur intimamente riconosciuti, venivano chissà perché espulsi e messi completamente da parte per non distrarre la mente da quanto ti si affacciava intorno: dalle nuove amicizie che potevi stringere, al divertimento e poi alle prime avventure sentimentali che non tardarono presto a succedersi l’una dietro l’altra.
La stradina iniziava in una leggera curva di via Roma - poco più avanti della cantina di Tobia - e proseguiva in una discesa mediamente ripida che dal centro del paese conduceva gradatamente al mare ai bagni del vecchio Quintilio, gestore di una sorta di stabilimento balneare fatto di assi di legno ove l’unico servizio era quello di avere riservate due sedie a sdraio sotto un mini ombrellone scolorito dal sole e un piccolo bar per rinfrescarsi nelle ore di maggiore calura. Le cabine per spogliarsi e per stipare i costumi, i canotti e i giochi da spiaggia erano anch’esse in legno e si potevano contare. Saranno state una ventina in tutto, forse, dotate di tavolini a doghe di pessimo legname, muniti di seggiole che, dopo un po’ che ci eri rimasto seduto, finivi col culo a strisce per i segni che gli spigoli vi imprimevano dolorosamente fin dalla prima mezz’ora.
Al bar di Quintilio, che sorgeva su una mini impalcatura dalle fondamenta in tronchi d’albero che affondavano nel mare, il pavimento in assi di legno era impercorribile a piedi nudi a meno che non si fosse disposti a rischiare che un alluce rimanesse prima o poi miseramente infilzato da qualche scheggia e qui, non per il rischio implicito, mi era consentito di accedere, nemmeno tutti i giorni, per comprare un ghiacciolo al prezzo non superiore alle venti lire.
Ma questo, alla fine, contava veramente poco. Era il resto, il contorno che rendeva felice l’animo, la compagnia e spesso l’allegria dei vicini di ombrellone e di Adriana, una stecca da biliardo dal viso dolcemente mascolino e impertinente, che riempivano il trascorrere lento dei giorni che però troppo presto finivano riportandoti al tuo vicolo di sempre.
Da bambino partivo ogni mattina, bardato di costume, salvagente, palette e formine puntualmente affidate al trasporto di mia madre in una borsetta di plastica, percorrendo sempre lo stesso tragitto nell’attesa di svoltare quel famoso angolo di strada. Il percorso rimase lo stesso anche nell’adolescenza ma, in questa fase, avanzavo con gli zoccoli ai piedi e le mani assolutamente libere, per sentirmi maggiormente partecipe di quel meraviglioso concerto.
La discesa al mare si riproponeva ogni volta con l’accompagnamento del ticchettio degli zoccoli, del profumo delle piante e di quello di una pasticceria non lontana che sfornava ciambelle a tutto spiano.
Le sensazioni erano sempre, piacevolmente, le stesse: l’ascolto e il partecipare alla raccolta di quegli odori come per fare il pieno di ricordi. Un pieno gratuito e di grandissimo valore!
Scendere verso il mare era come ascoltare una musica alla quale finiva per aggiungersi presto il suono della risacca che concludeva un’opera in cui gli zoccoli impartivano sempre, immancabili, la loro meravigliosa ouverture.

giovedì 11 febbraio 2016

ARIA di Sandra Carresi



Non so se parlerò di te,
ma, se lo farò,
sarà con me stessa.
Per ripercorrere a ritroso
quei voli di merli
alti nel cielo
per poi tornare
a riposare sui rami
folti degli olivi,
respirare la terra
bagnata dopo
il temporale di primavera
o
cercare riparo
nelle rigidità invernali.
 
 

 

mercoledì 10 febbraio 2016

L'ESSENZA DI HENRI di Paolo Secondini

– Jane, ti prego, vuoi startene ferma per un po’? Se ti muovi continuamente non riesco a ritrarti. Che cosa ti prende quest’oggi?
La modella si volse a guardare Toulouse-Lautrec il quale, pennello tra le dita, era in piedi davanti a una tela su cavalletto.
La vivida luce del giorno entrava nell’atelier da una grande finestra spalancata.
– Ma io non mi muovo, Henri – protestò la ragazza. – Sei tu che sei pieno d’assenzio e vacilli sulle gambe. Ti tremano anche le mani. – Tacque un istante; aggiunse: – Non dovresti abusare dell’alcol quando dipingi.
– Che dici, piccola sgualdrina?!... Le mie gambe vacillano? Le mie mani tremano? – Distese le braccia davanti a sé e rimase a guardarle. – È vero! – disse alla fine. Sbuffò con veemenza, poi esclamò: – Merde! Che posso farci se tremano le mani?
La modella si alzò dalla sedia e coprì, con una vestaglia, la propria nudità. Si avvicinò al pittore.
– Non dovresti bere, Henri, te l’ho detto… soprattutto mentre lavori.
– E credi che ciò sia possibile?
– Dipende da te.
– Oh, se è per questo…!
Afferrò da un tavolo una bottiglia dal collo lungo e versò dell’assenzio in un bicchiere. Lo ingollò d’un fiato.
Dopo aver tossito leggermente – come sempre gli succedeva, sebbene fosse un bevitore incallito – restò a osservare il bicchiere. Se lo rigirò nella mano poi, inaspettatamente, lo scagliò con rabbia contro una parete dell’atelier. I frammenti di vetro, tintinnando, si sparsero ovunque sul pavimento.
Il pittore nascose il viso tra le mani e pianse convulsamente.
– Ehi, Henri, che ti piglia, adesso? – chiese Jane.
Toulouse-Lautrec non rispose; continuò a gemere.
– Smettila, ti prego! – aggiunse la ragazza. – Mi dispiace vederti così. Finirò col piangere anch’io.
– Guardami! – lui rispose d’un tratto, abbassando le braccia. – Non sono che un nano… un orribile nano. La mia essenza è racchiusa in un corpo grottesco, striminzito; in un corpo che suscita solo ribrezzo e derisione in quanti lo vedono.
D’istinto Jane gli cinse le spalle con le braccia e lo strinse con dolcezza.
– Non dire così, Henri. Nel tuo piccolo corpo c’è tanta passione e creatività. Sei un uomo stupendo e un artista straordinario.
Lo baciò sulla fronte.
Dopo alcuni secondi, il pittore emise un sospiro profondo; si asciugò le lacrime.
– Lo pensi… davvero? – balbettò alla fine. – Pensi davvero che sia un uomo stupendo e un artista straordinario?
– Sicuro, mon amour! – lei rispose senza esitare. – Sai bene che sono incapace di mentire. Sei un grande pittore, Henri. Lo dicono tutti, del resto.
Lo baciò di nuovo: questa volta sulle labbra.
Toulouse-Lautrec rimase in silenzio. Chiuse gli occhi e appoggiò il capo sul piccolo seno della ragazza, come un bambino desideroso di affetto. Lei gli passò leggermente una mano sui capelli.
In quel momento Jane era per lui una madre amorevole, premurosa, non più la modella, tanto meno l’amante.
– Oh! Che cosa farei se tu non ci fossi?! – disse il pittore in un sussurro.

martedì 9 febbraio 2016

MILLE CHILOMETRI di Giuseppe Novellino

     L’estate stava per cominciare e il viaggio era ormai nell’aria.
     I miei pensieri si rivolgevano solo a ciò che ci aspettava: l’impresa di attraversare l’Italia in Cinquecento.
     L’avventura di Marco Polo mi sembrava una bazzecola al confronto.
     Papà tornò a casa, una calda sera di giugno, con una strana espressione dipinta sul volto. Era un misto di complicità, di riflessione e di suspense.
     - Allora, che ti hanno detto? – chiese la mamma, mentre rimestava il minestrone.
     Lui si sedette al tavolo di cucina e sospirò. Rimase a lungo in silenzio.
     Mio fratello Lorenzo ed io stavamo giocando a dama. Ci interrompemmo e lo guardammo come se fosse un giudice in procinto di emettere la sentenza.
     - Il signor Sertori – disse -  mi ha assicurato… Basta andare con prudenza, insomma, senza affaticarla. Ogni settanta-ottanta chilometri ci fermeremo per far respirare il motore. La Cinquecento potrebbe portarci fino a Capo Nord.
     Noi invece andavamo a sud.
      Destinazione: Alta Irpinia, terra d’origine di mio padre. Da Sondrio a Lacedonia, un viaggio di mille chilometri.
     Era il giugno del 1961. La mia famiglia si accingeva a vivere la prima villeggiatura in automobile. Mio padre era maestro elementare, aveva l’estate tutta per sé.
     La Fiat Cinquecento era nuova di zecca, verde prato, targata SO-15797: uno scatolino dalla vernice e dalle cromature fiammanti, con un odore di plastica all’interno che ne garantiva la verginità. Anche per noi era arrivata, dunque, la libertà su quattro ruote.
    E venne il giorno della partenza.
     Io e i miei fratelli eravamo elettrizzati. Mamma e papà facevano fatica a tenerci a freno, con tutta l’ansia di non dimenticare qualcosa. Dovevamo attraversare l’Italia in gran parte della sua lunghezza, e poi ci aspettavano due mesi di soggiorno in quel paese sperduto sulle gialle colline dell’Irpinia.
     Ci mettemmo in macchina alle sei e trenta del mattino. Dopo quasi tre ore raggiungemmo Lecco, distante ottantatre chilometri. La tortuosa strada lungo la sponda orientale del lago di Como era, anche per i tempi, trafficata, e ci aveva costretto a un’andatura da lumaca. Mio padre aveva voluto attenersi scrupolosamente ai consigli della Concessionaria Sertori: dopo settanta chilometri, si era fermato per quasi mezzora, aveva aperto lo sportello posteriore e aveva fatto riposare il motore.
     Viaggiavamo scomodi, ma felici. La macchina era sovraccarica, con quel muro di valige legate al portapacchi. Sul sedile anteriore, mia madre teneva in braccio Marco, il fratellino di tre anni. Su quello posteriore, mia sorella Elisabetta, io e Lorenzo.   Stavo seduto nel mezzo perché volevo vedere la strada, e poi mi piaceva osservare le manovre che papà faceva nella guida.
     Ma presto venne la stanchezza. Il ronzare del motore mi metteva sonnolenza, accentuata dal caldo che i vetri abbassati non riuscivano a mitigare. I miei fratelli, costretti contro i finestrini, ogni tanto manifestavano insofferenza. Mia madre faceva di tutto per tenere buono Marco.
     Verso le tre del pomeriggio giungemmo alla prima meta del viaggio: una cascina presso Mantova, dove viveva una cugina di mia madre.
     - Benvenuti – ci accolsero lei e il marito.
     Mio padre era stravolto per la guida. Ricambiò i saluti e fece notare, con evidente orgoglio, la nuova vetturetta che ci aveva portati sani e salvi fin lì.
     - Quanto pensi di impiegare per arrivare al tuo paese, Antonio? – chiese Elvia, la cugina di mia madre. Non aveva la minima idea dove fosse Lacedonia. Sapeva solo che si trovava in Terronia e che i chilometri si dovevano contare almeno nell’ordine delle migliaia.
     - Per domani sera – rispose con sicurezza papà.
     Così ci riposammo e godemmo della calda ospitalità della cascina.
     Io e i miei fratelli facemmo una certa amicizia con i figli di Elvia. Mi rimase impressa la loro lingua (il dialetto mantovano), che mi faceva l’effetto di un idioma straniero. Mantova mi sembrava distante da Sondrio, quasi come l’Italia dall’America.
     Il giorno dopo, prestissimo, ci rimettemmo in marcia.
     Mio padre cantava La montanara e O sole mio. Teneva il volante con una mano e con l’altra gesticolava al ritmo della musica. Anche noi eravamo allegri. Marco, sulle ginocchia della mamma, si muoveva come un folletto.
     A lungo andare, i rettifili del Ferrarese e del Ravennate ci provocarono una torbida sonnolenza. L’asfalto riverberava. Fughe di pioppi e distese di campi rendevano monotono il nostro procedere.
     Ogni ottanta chilometri ci fermavamo e uscivamo per sgranchire le gambe. Mi sentivo come una sardina tolta dalla scatola.
     Prima di arrivare a Rimini, mio padre si esibì nel quarto sorpasso di un camion. Gli altri tre risalivano al giorno prima, lungo le statali di Bergamo e Brescia.
     - Ce la fai? – chiese con apprensione mia madre, sporgendosi a sinistra per vedere a sua volta se la strada fosse libera.
     - Tranquilla, Wanda.
     - Arriva una macchina, stai attento! – gridò lei.
     - Sì… è passata. Adesso ci provo.
     Con uno strappone scalò dalla quarta alla terza, fece tossire il motore, e via…
     Ma il rettilineo stava finendo e la piccola automobile arrancava disperatamente per rientrare nella sua corsia. Ce la facemmo per un pelo. Dalla curva sbucò una Fiat 1400, che ci incrociò con un rabbioso e lacerante suono di clacson.
     Poi vedemmo il mare.
     Il viaggio per un po’ divenne più piacevole, ma ben presto ritornarono la noia e la fatica.
     Bisognava fare tutti quei percorsi urbani. Non c’erano tangenziali, a quell’epoca, nemmeno circonvallazioni. Le cittadine adriatiche venivano attraversate nel centro, là dove la Statale 16 si trasformava in lungomare. Un vero stillicidio.
     Fano, Senigallia, Falconara Marittima. E poi Ancona.
     Il motore della Cinquecento si era surriscaldato e dovemmo fermarci un po’ più del solito.
     Arrivammo a San Benedetto del Tronto che faceva ormai notte. Altro che raggiungere la meta in serata! Passammo la notte sul ciglio della strada, fra i pini marittimi, mentre cantavano i grilli e un venticello portava aria salmastra. Per un po’ ci assopimmo in macchina. Poi papà e mamma stesero una coperta nell’erba secca. Così ci allargammo, facendo le cinque di una fresca mattina d’estate.
     Quando ci rimettemmo in macchina, papà disse:
     - Fra sessanta chilometri siamo a Pescara, e quando saremo a Pescara è come se fossimo a casa. Là, comincerò a sentire l’aria del mio paese.
     Pescara la superammo solo dopo due ore. E poi, giù, lungo il rimanente della costa adriatica, verso Termoli.
     Era passato mezzogiorno, quando lasciammo la costa per inoltrarci nel Tavoliere delle Puglie.
     La fatica stava diventando insostenibile. La Cinquecento emetteva una specie di ronzio soffiante, segno che il motore era messo a dura prova.
     Ci trovavamo in una specie di deserto, tra campi di grano a perdita d’occhio da poco mietuti.
     Lungo un rettilineo in pendenza, dalle parti di Serra Capriola, mia madre osservò:
     - Antonio, perché vai così adagio? Non passa nessuno… e siamo in discesa.
     - Ma che dici? – fece mio padre. – Non vedi che siamo in salita?
     I miei tre fratelli si erano addormentati. Io provavo la stessa sensazione di mio padre, ma ebbi il dubbio che fosse quella giusta.
     La scatola su quattro ruote era diventata un forno, sotto il sole spietato del Tavoliere. E fu con vero coraggio, con la forza che dovevano avere i grandi pionieri, che riuscimmo ad attraversarlo.
     Quando fummo sui primi contrafforti dell’Appennino, tra i monti della Daunia e quelli dell’Irpinia, papà accostò la macchina per la solita rinfrescata al motore. Ci fece scendere e ordinò:
     - Respirate tutti, a pieni polmoni. Ecco l’aria del mio paese!
     E quando poi arrivammo, la nostra fu un’entrata degna dell’impresa che avevamo compiuto. Mentre affrontavamo le ultime curve che ci portavano in paese, la gente ci guardava con vero stupore, si chiedeva da dove venisse quella macchinetta verde prato, stipata di gente e schiacciata da una pila di valige. La vedevano passare, e provavano a leggere la targa: donne sedute a ricamare sull’uscio di casa, il barbiere che aspettava il primo cliente del tardo pomeriggio, il sacrista della Chiesa di Santa Maria che apriva il portale per la messa vespertina. E giunti nel piazzale antistante l’Istituto Magistrale, prima di imboccare il vicolo dove sorgeva la casa dei miei nonni, dovemmo sostare a lungo dietro una fila di contadini con muli e asini che tornavano dalla campagna. E quella fu l’ultima coda, fu l’ultimo rallentamento di quel viaggio durato tre giorni.
     La mamma, stravolta per la stanchezza, disse:
     - Ecco, bambini, siamo a Lacedonia. Mille chilometri da casa nostra. Qui ci staremo per quasi due mesi.
    Ma il mio pensiero andava al prossimo viaggio.
    E pensai che due mesi sarebbe stato un lasso di tempo troppo breve, tra l’andata e il ritorno.
 

 

 

 

lunedì 8 febbraio 2016

IL PRIMO PICCOLO GRANDE AMORE di Teresa Regna


Quella sua maglietta fina
tanto stretta al punto che m’immaginavo tutto …
Eravamo ragazzini. Io indossavo una maglietta, neanche tanto fina, ma stretta al punto giusto. Lui mi guardava, spesso: non avrebbe potuto fare altrimenti, dato che eravamo compagni di classe. E immaginava tutto. All’inizio lo supponevo soltanto, poi lo seppi con certezza.
 …e quell’aria da bambina
che non gliel’ho detto mai ma io ci andavo matto …
Avevo un’aria da bambina. Forse perché ero una bambina. Con la terza di reggiseno. Fu il primo a dirmi: sei bella. Non gli credetti, ma apprezzai il complimento. Era timido, dolce, aveva un’aria quasi sempre smarrita. In particolare, durante i compiti in classe. Cominciai a mandargli dei bigliettini. Non con le frasi d’amore, ma con le risposte corrette.
…e chiare sere d’estate il mare i giochi le fate
e la paura e la voglia di essere nudi…
Al mare non siamo mai andati, insieme. Abitavamo in due paesi circondati dalla campagna, in collina, tanto vicini che quasi si toccavano. Trascorrevamo le sere d’estate camminando, mano nella mano, sotto il cielo stellato di periferia. Eravamo troppo giovani per fare l’amore, se non nelle nostre fantasie più sfrenate. Il gioco era il nostro stesso amore, troppo giovane e fragile, ma autentico.
…un bacio a labbra salate un fuoco quattro risate…
Il primo bacio fu una tragedia: era il primo per entrambi. Non sapevamo cosa fare. Pian piano, ci lasciammo guidare dall’istinto e imparammo a scambiarci gli apostrofi rosa tra le parole ti amo. Il nostro fu un amore fatto esclusivamente di baci e sospiri, sguardi e tenerezze.
…ti amo davvero ti amo lo giuro …
Ci giuravamo eterno amore, ogni giorno. Più volte al giorno. Non riuscirei a contare le volte in cui ci siamo detti ‘ti amo’. Nel cortile della scuola, per strada, sotto un albero, in corridoio. Di nascosto, perché l’amore a quell’età è un frutto proibito. I nostri compagni sapevano, e tacevano.
…lei era un piccolo grande amore
solo un piccolo grande amore niente più di questo niente più …
Lui era il mio piccolo grande amore, io il suo. Piccolo perché eravamo ragazzini, grande perché l’immensità di quel sentimento ci riempiva il cuore. Traboccava, fino a toccare con la sua carezza tutti gli altri aspetti delle nostre vite. Come ogni amore degno di questo appellativo.
…e le canzoni stonate
urlate al cielo lassù…
Eravamo entrambi stonati, ma ci ostinavamo a cantare. Canzoni d’amore, naturalmente. Baglioni era il nostro complice, dal quale avevamo attinto il coraggio di manifestare il nostro amore. Le sue canzoni erano la colonna sonora della nostra storia.
…non sono sicuro se ti amo davvero
non sono non sono sicuro...
Un giorno, però, qualcosa si incrinò. A quell’età ci si può giurare eterno amore, ma non c’è nessuna garanzia che durerà davvero. Il dubbio si insinuò nei nostri cuori, rendendo l’amore più labile, quasi sfilacciandolo come un indumento smesso. La tenerezza, invece, rimase, fino alla fine e anche oltre.
…e lei tutto d’un tratto non parlava
ma le si leggeva chiaro in faccia che soffriva …
Avevo un carattere solare, all’epoca. Diventava ombroso, però, quando riflettevo sul futuro della nostra storia. E soffrivo, mostrandolo chiaramente: la mia espressione, da sorridente, si faceva d’un tratto cupa. Come una bella giornata di sole rovinata da un temporale. Lui se ne accorgeva subito, e cercava di rimediare. Il disastro, però, ad un certo punto divenne inevitabile.
… e io io non lo so quant’è che ha pianto
solamente adesso me ne sto rendendo conto …
Versai fiumi di lacrime, quando decidemmo di lasciarci. Una lacrima solitaria attraversò anche il suo volto abbronzato. Eravamo al solito posto, seduti sul muretto di una strada di periferia. Le stelle ci facevano da testimoni. La romantica parentesi di vita era ormai conclusa, ne eravamo consapevoli. Entrambi. Ma la nostra consapevolezza non lo rendeva meno doloroso.
Mi sembrava che il cuore stesse per spezzarsi in due. Credevo che non avrei mai più rimesso insieme i pezzi. Che non avrei mai più pronunciato le magiche parole ‘ti amo’. Non mi rendevo conto che la sofferenza è una delle facce dell’amore. Che lasciarci era inevitabile: stavamo crescendo.
La nostra piccolo grande storia d’amore, tenera, nascosta, pura e romantica, non è stata meno sincera o importante di quelle che l’avrebbero seguita. E ha lasciato un ricordo indelebile, dolceamaro, nei nostri cuori.