giovedì 28 aprile 2016

CARA PROF di Teresa Regna

Cara Prof,
scusa se ti do del tu, ma oggi proprio non posso farne a meno.
Ricordi quando mi avvicinavo alla cattedra, prima della lezione, per confidarti le mie pene? Avevo dagli undici ai tredici anni, e i futili problemi di ragazzina mi sembravano insormontabili ostacoli sulla strada della vita.
Pur essendone consapevole, tu mi incoraggiavi, mi elargivi con generosità dei consigli preziosi, mi tiravi su il morale con le tue parole piene di buonsenso, mai con condiscendenza, ma sempre con affetto sincero.
E con affetto sincero ti ricordo: ti invio gli auguri ad ogni festa comandata, e ti scrivo delle lettere. Mai come questa, però. Questa è una lettera speciale, che ribadisce ciò che già sai, ma che di tanto in tanto potresti aver dimenticato, o ignorato. Le chiacchiere sui miei ex compagni di classe con cui riempio le lettere sono un modo per testimoniarti ancora la mia stima e il mio affetto, immutato come se non fossero trascorsi tanti, troppi anni.
Sei l’unica persona, oltre me, a possedere la mia bibliografia completa, incluse le antologie di cui ho preso soltanto due copie, una per me e una per te. Conosci bene il motivo: mi hai sempre incoraggiato a scrivere, da quando ti presentai un tema con degli improbabili omini gialli che vivevano in costruzioni piramidali fino al ‘libretto’ che veniva consegnato agli alunni dopo la licenza media.
Il mio primissimo romanzo, ‘Quelli della III C’, che parlava delle esperienze e dei sogni di tredicenni degli anni ’70, della nostra classe e dei nostri insegnanti, andò disperso perché ci tenevo che lo leggessi: la tua approvazione era tutto per me. Te lo mandai tramite un’amica, e non ho mai nemmeno saputo se sia andato perso prima o dopo che tu lo abbia letto. Oggi lo considererei di sicuro abominevole, scritto con lo stile di un’adolescente sull’onda di ricordi ancora freschi che facevano bene al cuore, ma mi sarebbe piaciuto poterlo conservare, per discuterne con te.
Per ricordare, insieme, le vicende accadute e l’affetto che ci legava. Che ci lega tuttora.
Sono stata fortunata: ho avuto dei buoni insegnanti. Non sempre, ma spesso. Alcuni ottimi, come te.
Ho cercato di fare tesoro non soltanto dei tuoi insegnamenti, ma soprattutto del tuo insegnamento: ama ciò che insegni, ama le persone alle quali insegni. Non ancora adulti, ma nemmeno bambini, che a volte studiano per compiacerti, altre si ribellano all’autorità che rappresenti. Chiedi molto, ma dai altrettanto. Sii tollerante, ma poni dei limiti alla tolleranza.
Cerco di seguire il tuo esempio, e quello dei docenti in gamba come te, ora che sono anch’io prof. Con la minuscola, perché non posso paragonarmi a chi è riuscita a farmi amare persino il latino. A volte mi scoraggio, altre mi galvanizzo; faccio quello che posso. A disposizione, per ciascuna classe, ho tre ore settimanali, il mio bagaglio di conoscenze e l’affetto che, nonostante tutto, mi lega a quegli strani esseri comunemente chiamati adolescenti.
Ti rivedo ancora, con la tua torre di capelli neri (la ‘cofana’, direbbe la Marchesini), spiegare che le mani corte significano scarsa propensione alla generosità (parlavamo di qualsiasi argomento: erano gli anni ’70). Confondendo corte con piccole, ti mostro le mie mani, e ottengo la rassicurazione in cui speravo. Non ci siamo capiti, non parlavo di mani come le tue, ma tozze. Sospiro di sollievo da parte mia, sorriso dolce da parte tua.
Non c’era nessun collega, all’epoca, a consigliare agli altri di non sorridere, come è successo a me. Si parlava, si discuteva: politica, problemi sociali (non addomesticati, come accade oggi), religione. I Prof come te insegnavano agli alunni a pensare. Ne ho incontrato degli altri, anche all’Università. ‘Help me to think’, chiedevo loro, e venivo ascoltata. Come mi ascoltavi tu, la prima della serie.
Ti ricordo ancora, bella come una giornata di primavera, chiedere la penna o assegnare i compiti per casa in francese. A noi, alunni del primo corso a scegliere come lingua straniera l’inglese.
Rivedo la tua gonna longuette svolazzare nel vento mentre fai lezione in cortile, al centro di un gruppo di ragazzi seduti sul muretto, che pendono dalle tue labbra.
Rivedo il tuo sorriso cancellare le mie angosce adolescenziali, la tua mano dalle lunghe dita fluttuare mentre spieghi con parole semplici un argomento particolarmente ostico, riuscendo a farlo penetrare nelle nostre menti.
Mentre ripenso al nostro rapporto, lungo tre anni, non posso fare a meno di ringraziarti ancora una volta, da prof a Prof. Tu con la maiuscola, come maiuscola sei stata per noi della III C e per tanti altri alunni che hanno avuto la fortuna di incontrarti lungo il loro cammino.
Con immutato affetto e stima, ti saluto.

domenica 24 aprile 2016

IL DOLCE DI LILY di Paolo Secondini

Primavera, 1964.
La sirena tra poco fischierà la fine del lavoro e Lily non è pronta. Prona sul letto, indugia a guardare in un libro di ricette un dolce alla crema che forse non farà.
Per chi mai lo farebbe se è sola come un cane?
Potrei farlo per me! ella pensa, e un lampo di gioia le brilla negli occhi, ma subito crolla la testa. Fossi matta!
È molle di fianchi, grossa di petto. Gli anni passano inesorabilmente. Oltretutto è stanca. Non ne può più di quella vita: aprire le cosce ogni sera davanti a casa sua (dopo il fischio della sirena), far cenni a quelli che passano a piedi, in bici, in auto, e sperare che qualcuno si fermi.
* * *
Una volta si andava da Lily a fumare in cucina, mentre lei preparava il caffè.
Dopo averlo sorbito ci si stendeva sul letto: mezzora abbracciati, stretti, storditi dai sensi.
Lily otteneva il denaro; l’altro, il cuore contento.
E ancora mezzora con chi il suo turno aveva aspettato in giardino, nascosto agli sguardi.  
* * *
Ora di rado qualcuno è da Lily, nonostante prepari il caffè e offra sigarette.
Guarda l’orologio: soltanto pochi minuti al fischio della sirena. Deve far presto. Forse qualcuno si fermerà questa volta.
Denaro ne ha poco. Non deve sciupare l’occasione.
Ma indugia. Si attarda a osservare nel libro di ricette il dolce alla crema che forse non farà.
«Ma sì, ma sì, ma sì!» crolla il capo, mentre svelta s’alza dal letto.
Quel dolce ha deciso di farlo: per nessuno, forse, tanto meno per sé. Ha deciso di farlo così, semplicemente…
Per una volta vuol sentirsi donna.
 

venerdì 22 aprile 2016

IL PROFUMO -L’amore ai tempi del colera- di Peppe Murro

Ricordava la sua gioventù, mentre si guardava le rughe allo specchio… quasi con sollievo, si accorse, benediceva il fatto d’essere vecchia. E non la disturbava più quell’odore di piscio e di muffa sulla pelle che Marquez aveva descritto: non c’era, non c’era mai stato…
Attorno a sé gustava un profumo di vitalità ritrovata, la rallegrava quel senso delle cose che la stava accompagnando in quel viaggio strano.
Era stata ribelle e innamorata, aveva scelto persone ed incontri, aveva dato e ricevuto dolori.
Ora tutto era scomparso.
Quell’uomo strano, che l’aveva inseguita tutta la vita senza arrendersi mai, quell’uomo testardo nelle cose e tenace negli affetti, quell’uomo era lì, fuori la stanza che l’aspettava. Come sempre.
Prese con calma un profumo, aprì la boccetta e le poggiò sul collo con un rinnovato piacere… era viva.  
Ancora.
Non importava che la nave ripartisse dalla palude, non importava neppure che arrivasse da qualche parte: il viaggio importava, e le sensazioni rinnovate che regalava.
Fermina si guardò ancora allo specchio… certo, un tempo era stata giovane e bella, molti uomini avevano cercato la sua tenerezza nell’ombra di una stanza, molti l’avevano solo sognata.
Qualcuno era venuto a consolare la sua solitudine, qualcuno aveva riempito i suoi giorni.
Eppure tutto questo non importava più.
Oggi c’era solo quel viaggio, e quest’amore di vecchi, forte come ogni amore, delicato come ogni passione coltivata a lungo, preservata dalle smanie furiose e smemorate della giovinezza…
Aveva voglia di chiudere gli occhi, di nuovo, e lasciarsi cullare da quell’onda strana che ti scivola da dentro su tutti i pensieri.
E ti fa respirare, a fondo, tutto il tempo che viene, tutto il tempo che resta…   
 

domenica 17 aprile 2016

ARIA di Giuseppe Novellino

I
- Domani devo andare a Tirano, con il carro – annunciò Giacomo.
- In te, non ci andrei – disse Dino.
- Perché?
- Perché domani passa il Pippo.
- Ma è passato ieri.
- No, ti sbagli: l’altro ieri.
Giacomo divenne pensieroso, estrasse dalla logora giacca un sacchetto di tabacco e le cartine. Silenziosamente si preparò una sigaretta, mentre l’amico guardava nel bicchiere semivuoto che teneva fra le mani. Solo due lampadine illuminavano il locale. Nella piccola osteria, quella sera di novembre, non c’erano che loro due, come avventori.
La Carla, una ragazzetta di dodici o tredici anni, stava al banco e asciugava pigramente dei bicchieri. Dopo l’ora di cena ci sarebbe stato più movimento. Il coprifuoco non interessava un paesino come Stazzona. 
- Ma! – fece Giacomo, dopo avere acceso la sigaretta. – A pensarci bene, che cosa me ne frega del Pippo?
Dino vuotò il fondo del bicchiere, fece schioccare la lingua e disse:
- Ah, certo, non sei un obiettivo militare, ma con quello non si può mai sapere.
Giacomo scrollò il capo. - Un carro trainato da un cavallo che sta in piedi per pietà e misericordia…
- Ma il Pippo mitraglia tutto quello che si muove.
- Solo quando gli gira, però.
Dino strinse le labbra, dubbioso.
- La settimana scorsa – disse ancora Giacomo dopo un prolungato silenzio, - è passato e ripassato sopra il treno, dalle parti di Chiuro, ma… niente.
- Forse non aveva più munizioni.
- O si è limitato a fotografare.
- Beh, può essere. Infatti dicono che è un ricognitore.
- Parte dalla Toscana, o giù di lì. E viene a rompere le scatole qui da noi.
- Probabilmente deve tenere sotto controllo questa zona di confine
- E all'occasione dare man forte ai partigiani del Mortirolo.
Giacomo portò alle labbra il suo bicchiere che non era stato ancora intaccato. Mandò giù un sorso di vinello e aspirò un’avida boccata di fumo.
- Io a Tirano ci devo proprio andare – disse. – È un bel carico di legna che devo consegnare ai due vecchi Gosatti, altrimenti moriranno di freddo, quest’inverno. È già bella e pronta per essere messa nel fuoco. E i soldi che mi daranno in cambio servono per il vestiario, a me, alla mia Maria e alle mie figlie.
- Gosatti, il professore? – volle sapere l’amico.
   - Sì, è il Gosatti Pietro, professore alle Magistrali, in pensione. Adesso scrive libri, dei bei libroni sulla storia di Bormio e di Tirano.
- Ah, sì, un cervellone! – sentenzia Dino.
- Conosce mia moglie, perché anche lei è di Tirano… ed è una sua lontana parente.
- E tu gli fornisci la legna.
- Della mia selva lungo l'Adda. Poca roba, ma buona – assicurò Giacomo.
- Ah, ti credo: robinie e castagni.
Giacomo spense il mozzicone nel logoro portacenere e si mise le mani in tasca.
Sbuffò.
Dino si era messo a giocherellare con il bicchiere vuoto.
II
Il mattino dopo, faceva un freddo cane. La brina imbiancava i prati. Dai tetti delle case uscivano pennacchi di fumo azzurrognolo. Un sottile banco di nebbia avvolgeva il paesello.
- Ti ho preparato il chiscio - disse Maria, vedendo entrare il marito nell'ampio locale affumicato che faceva da cucina e da soggiorno. Nell'angolo c'era un vecchio e nero camino, con un fuoco che scoppiettava allegramente.
Giacomo si sfregava le mani, stringendosi nelle spalle, tutto infreddolito. - Brava, Maria, sento l'odore.
- Tutto a posto?
- Sì, ho attaccato il cavallo. Fra mezz'ora, al più tardi, mi metterò sulla strada.   
Maria stava scodellando la tonda frittella di grano saraceno, cotta nel grasso di maiale. Mandava un buon odore, grazie alle croste di formaggio che si erano abbrustolite in superficie.
- Mi ci vuole, questa mattina - fece Giacomo, sedendosi. Dedicò a Maria uno sguardo di riconoscenza.
Sua moglie era diventata magra come una saracca, ma possedeva due gambe muscolose che reggevano un corpo ancora flessuoso. Le era affezionato, la chiamava scherzosamente "la mia vecchia ciabatta"; e se lei fingeva di offendersi, la prendeva per un braccio e le appioppava una bella pacca sul culo ancora sodo.
Giacomo cominciò a mangiare il chiscio, rompendolo a pezzettini con la forchetta. Era buono e lui masticava con gusto.
- Elisabetta dorme ancora? – domandò con la bocca piena. Era la figlia preferita, una graziosa ragazza di diciassette anni, la più piccola.
- Sì - rispose Maria. – È ancora a letto con la nonna.
L'altra, Gabriella, una ventenne già fidanzata, si era alzata da un pezzo. Lui l'aveva vista nel pollaio, pochi minuti prima. Gli aveva sempre fatto una certa soggezione, con quel suo fare serio e scontroso. Non vedeva l'ora che si maritasse.
- È buono questo chiscio.
- L'ho fatto con la farina avanzata nel sacco bianco - disse lei, aprendo il rubinetto del lavandino.
Lui smise di masticare e rimase con il boccone in bocca. - Non avrai preso quella farina di segale andata a male, spero. È in un sacco bianco, appunto.
Maria non rispose subito. Guidava con il palmo della mano il getto d'acqua per sciacquare il lavandino. Poi si girò - No, stai tranquillo, ho preso la farina giusta. - Ma a lui parve di vedere sul volto della donna un'ombra di dubbio, subito fugata.
- Quella può essere segale cornuta… fa male - disse lui - devo  ricordarmi di buttarla via.
Maria si strinse nelle spalle. - Mia nonna diceva che fa solo vedere cose che non ci sono.
Lui inforcò un altro boccone. Lo rigirò sulla forchetta, poi se lo ficcò in bocca.
- Comunque è una delizia… e con questo freddo è un buon mangiare.
- Tornerai per mezzogiorno? – volle sapere Maria.
- Penso proprio di sì. Devo consegnare la legna al Gosatti e… via, me ne torno subito a casa.
- Di questi tempi non è bello stare troppo in giro.
- Puoi ben dirlo, Maria.
- Magari passano i fascisti e ti scambiano per un partigiano.
- Con il carretto?
- Quelli non vanno tanto per il sottile e se vedono uno che non gli va a genio…
- Ma io ti sembro uno sospetto?
La donna sorrise. - No, tu no. Ma torna a casa subito, hai capito?
- Ho capito, ho capito.
Giacomo addentò l'ultimo boccone.
III
- Giornata fredda, eh! - lo apostrofò Pino, un vecchietto che abitava nell'ultima casa del paese. Portava un secchio con del mangime per le galline.
- Ormai stiamo andando verso il peggio - rispose Giacomo dal carro. Teneva le redini in mano e cercava di spronare il suo ronzino, che quella mattina sembrava più pigro del solito. - Le giornate si stanno accorciando e la brina non ci lascerà più.
- Vai a Tirano? – domandò l’anziano.
- Sì, devo consegnare questo carico di legna: robinia e castagno.
Pino gli fece un gesto di saluto.
- Buona giornata anche a te.
Solo quattro chilometri e mezzo, ma con quel carretto era sempre una bella passeggiata, andata e ritorno. Ma ce l'avrebbe fatta in mattinata. Lo aveva promesso alla sua Maria.
Si mise sulla stretta carreggiata in terra battuta che costeggiava l'Adda. Il carro procedeva lentamente, traballando qua e là su ciottoli e avvallamenti del terreno. Ogni tanto sembrava scivolare di lato per avere messo le ruote nei solchi induriti, prodotti dai traini del giorno prima. Su quella stradicciola non passavano automobili, solo carretti, persone a piedi o qualche animale. Alcuni giorni prima, in quel punto, era transitata una motocicletta della Tot. Il soldato tedesco che la montava aveva occhialoni scuri e sembrava divertirsi a correre sul terreno accidentato.
Giacomo procedeva lentamente da circa dieci minuti, quando si accorse di provare una strana sonnolenza. Forse era il ritmo monotono dell’andatura, o forse l'ondeggiare della coda dell'animale che produceva una specie di ipnosi; fatto sta che lui si trovò ben presto a lottare contro una voglia impellente di chiudere gli occhi.
Eppure quella notte aveva dormito bene, otto ore filate.
La testa gli cadde sulle spalle. Subito si riscosse, rendendosi conto che non riusciva più a resistere al sonno.
Cullato dal monotono cigolio del carro, pensò che forse era tutta colpa del chiscio che gli aveva preparato la sua Maria. Qualcuno poteva non digerire, di buon mattino, quella tipica frittela di grano saraceno con croste di formaggio, fritta nello strutto. Ma lui era abituato.
Stava proprio per arrendersi alla sonnolenza, quando udì, alle sue spalle, un rumore assordante. Sembrava il ruggito di un grosso animale delle foreste africane.
Si riscosse dal torpore. Tenendo le redini con una mano sola si girò e guardò in alto, nel cielo.
Un enorme uccello stava planando su di lui. Sembrava una creatura uscita dalle pagine di una storia fantastica, l'orrida bestia volante creata dalla mente di uno scrittore pazzo.
Passò veloce sopra di lui, sibilando. Poi riprese quota, sopra le prime case di Tirano.  Per un momento Giacomo, impietrito, ebbe la sensazione che l'uccello virasse di lato per riabbassarsi su di lui, ghermirlo con quegli artigli terrificanti che riverberavano al sole. Ma fu solo una fuggevole impressione. Il mostro, sbattendo due enormi ali di pipistrello, continuava a prendere quota verso il massiccio del Mortirolo.
- Ehi, del carro!
La voce veniva dal greto del fiume. Apparve una figura di uomo con un cappellaccio a larghe tese. In mano teneva quella che sembrava una canna da pesca. Era apparso da dietro un cespuglio di sambuco.
Il carro intanto si era arrestato. Il pescatore si avvicinò.
- Per un momento ho avuto paura, sapete? – disse il pescatore.
Giacomo era ancora stordito. Emise una specie di grugnito. - Cos’era?
- Il Pippo. L'ho visto arrivare, d’improvviso. Ho pensato che mitragliasse. Dicono che a volte tira su tutto quello che si muove.
- Ma siete sicuro… Era proprio il P-Pippo?
- E cosa se no.
- Sbatteva le ali…
-  Come un uccello… Avete le traveggole?
- Chi, io?
- Siete bianco come un morto. E lo credo! L'avete scampata bella. Sapete cosa vi dico?
- Che cosa?
- Toglietevi dalla strada – lo consigliò il pescatore. - Quello può tornare, e magari…
- Avete ragione.
 Spinto da una nuova energia spronò il ronzino e cercò di percorrere il più velocemente possibile il tratto che gli rimaneva prima di entrare nella cittadina. Nello stomaco gli danzavano i resti mal digeriti del chiscio.
Che la moglie avesse usato farina guasta? La segale cornuta?
Scacciò il pensiero e si concentrò sulla strada.
 

 

mercoledì 13 aprile 2016

QUANTI ANNI HO? Di Francesco Bisesti


Festa di compleanno, il venticinquesimo per l’esattezza; ovviamente non è il mio ma quello di mia figlia Francesca.
Banalmente dovrei prorompere nella più stupida e scontata delle considerazioni: come passa il tempo! Se mi esimo dal farlo è solo per una questione di pudore: non mi va di pensare ai miei anni o a quelli che mi rimangono. Preferisco vivere oggi quello che, colpevolmente, avevo omesso di vivere ieri. Del resto non credo di essere né il primo ma nemmeno l’ultimo di quei genitori che, presi da mille altre cose, non sono riusciti a godere fino in fondo della gioia di avere dei figli, di goderseli da piccoli quando si aspettavano di ricevere una carezza e di sentirsi protetti. Cercare di farlo ora, quando sono ormai cresciuti, ha tutt’altro sapore perché la protezione che si aspettano, e che spesse volte si finisce inevitabilmente col concedere, assomiglia molto più alla complicità.
Mi piace però, oggi, riflettere su una cosa: per quanti compleanni dei miei figli ho memoria ancora viva, non altrettanto posso dire dei miei. Di certo non ho alcun ricordo del genetliaco nel quale mi ritrovavo a festeggiare i miei venticinque anni mentre l’unico, di cui ho ancora memoria, è invece quello dei miei quarant’anni.
Quanti anni ho? E’ la tragica domanda di una celebre canzone di Adelmo Fornaciari, ed è la stessa che mi rivolgo quando mi accorgo del tempo che passa. Stupida domanda che, a volte, sarebbe meglio non farsi. Del resto a che scopo? Sei vivo, ed è questo che conta. Il guaio è che, talvolta, ci si sente morti dentro e non c’è condizione peggiore.
Meno male che a ricordarmi la vita ci sono loro che di compleanni hanno la forza e la voglia di festeggiarne ancora, allungando la lista di quelli di cui serberò per sempre il ricordo. Già, i ricordi: quelli che si conservano come racchiusi in una piccola scatola. La mia scatola di fiammiferi, dalla quale posso tirarne fuori uno e accenderlo ogni volta che voglio; accenderlo e lasciarlo bruciare, consapevole del fatto che potrò bruciarne ancora. Quando vorrò potrò sempre riaccenderne un altro e rivivere nel ricordo quegli attimi, quelle sensazioni, quegli sguardi e quelle piccole gioie che abbiamo imparato a scambiarci talvolta anche in silenzio.
Già, in silenzio. Non sono mai stato molto loquace, fino al punto da oscurare del tutto i sentimenti provati e creando magari imbarazzo. La mia è una strana testa: una folla di pensieri che ho sempre voluto far apparire come uno sparuto insieme, un groviglio di idee troppo spesso confuse tra loro, un ammasso informe di conclusioni sbagliate che, inevitabilmente, mi hanno portato a sbagliare nella vita non senza intaccare anche la loro.
A che serve implorare il perdono? Uno stato confusionale è sempre patologicamente involontario mentre le sue esternazioni costituiscono ogni volta il libero affermarsi della follia umana. 
Nella mia scatola di fiammiferi c’è dentro la mia vita ma ci sono anche le loro, i loro compleanni, le loro ansie e i loro piccoli problemi, c’è tutto. Un folle, quasi sempre, ha buona memoria e il povero Nerone, forse, proprio per dare spazio ai suoi ricordi si ritrovò colpevole dell’incendio di Roma!  

sabato 9 aprile 2016

IL RACCONTO CHE SI SCRIVE DA SÉ di Teresa Regna

C’era o non c’era una volta
importanza non ha:
il racconto si scrive da sé
e sempre si scriverà.
Le parole sono pietre
profumate di passione,
che si incastrano le une nelle altre
a formare un’emozione.
Le parole costruiscono un magico puzzle a forma di cerchio, o forse di piramide, o chissà di cubo. I trapezi sono figure geometriche piane usate nei circhi per imparare a volare. Le parole sono figure di senso che si cementano in mattoni per permettere alle persone di spiccare il volo.
Senza un racconto non esisterebbe la vita. Ogni essere vivente, infatti, ha qualcosa da raccontare, e contiene un racconto dentro di sé. E’ sufficiente liberarlo affinché si scriva, piantando il seme di nuovi racconti e di nuovi esseri.
Le parole sono pietre gettate in uno stagno, onde che liberano la fantasia in cerchi concentrici di luce interiore. Si intersecano senza toccarsi nel profondo finché non vengono accarezzate dal tepore della poesia.
Se l’essere è il racconto, la poesia è l’essenza, il cuore del racconto: le vibrazioni di un albero che cattura la luce del sole, il ritmo interiore di un bambino che sorride, il suono arcano di un amore che nasce.
Il racconto è una composizione armonica fatta di parole, che contiene in sé l’essenza della vita. L’armonia, pur imprigionata nell’angusto guscio di parole che giocano a rimpiattino, sprigiona tutta la sua potenza creativa.
Il suono è parte della parola, come è parte della musica, e trova la sua collocazione nel cuore dell’esistenza, che pulsa negli esseri viventi, nelle costruzioni di parole e, in ultima istanza, nell’universo stesso.
La parola crea, mentre il racconto perfeziona ciò che è stato creato, infondendo in esso la linfa della poesia. C’è poesia nella prosa, nel mondo, nella vita, in ogni piccolo gesto d’amore.
Lembi di realtà e lembi di fantasia si uniscono a formare il racconto. Che si scrive da sé, prendendo vita a poco a poco. L’autore/autrice non deve far altro che lasciare che acquisisca una forma, che scaturisca dall’austera penna di un tempo o dalla tastiera di un odierno computer. Il mezzo non ha importanza, la mano che l’aiuta a nascere ne ha soltanto relativamente. L’importante è che il racconto cominci, si espanda o si comprima a seconda dei casi, giungendo alla sua forma compiuta.
Il protagonista, l’essenza del quale viene svelata, può essere un uomo, un animale, un vegetale, o un oggetto inanimato: l’anima, in ogni caso, verrà conferita ad esso per mezzo della parola, che affiancata ad altre parole darà vita al racconto.
C’era una volta
il racconto perfetto,
fatto e finito,
completo e riletto.
All’autore dedicò uno sberleffo:
da solo mi scrivo
e sempre lo farò,
disse in uno sbuffo
di fumo che nel cielo
si inoltrò.

venerdì 8 aprile 2016

IL DADO di Paolo Secondini

Ecco, lo vedo!
Germoglia presso una quercia nel bosco. Un dado. Bianco coi punti neri.
Affiora dal terreno: un fungo cubico.
Sul lato rivolto verso l’alto ha il sei.
Osservo gli altri lati.
Su uno, il tre.
Sull’altro, il cinque.
Sull’altro ancora, il quattro.
Infine, il due.
Il sesto lato non si vede. Poggia sul terreno. Lo scopro… Uno.
Dovevo immaginarlo.
Prendo il dado.
Lo pulisco alla meglio del terriccio; ci soffio sopra; poi lo agito nel pugno, ma non stretto, questo, da impedire al dado di andar di qua e di là contro le pareti della mano. Infine lo lancio. Rotola tre volte…
Uno.
È uscito l’uno!
Poco, pochissimo… il minimo.
Raccolgo il dado. Lo agito ancora nella mano chiusa. Un altro lancio…
Uno.
Di nuovo l’uno!
Riprendo il dado, lo lancio più lontano, perché rotoli più volte sul terreno…
Uno.
Inesorabilmente l'uno!
Resto a osservare il dado, quel suo punto nero e tondo che sembra fissarmi come un occhio.
Crollo la testa, mentre penso alla sfortuna.
Tre lanci, tre uno!
E se invece fosse l’inverso? Voglio dire: fortuna?
Dipende dai punti di vista, ovviamente.
Insomma: sfortuna o fortuna?
Sto per lanciare ancora una volta. Mi trattengo all’ultimo momento, la mano sospesa nell'aria.
No!
Non sarei più (s)fortunato... se uscisse un numero diverso.
 

lunedì 4 aprile 2016

SOLTANTO UN AMORE DI MEZZO di Laura Silvestri

Si dice che il primo amore non si scordi mai. Anche l’ultimo, naturalmente, non corre il rischio di venire dimenticato. Sono gli amori di mezzo quelli che soffrono dello scorrere del tempo, che cerchiamo di nascondere in un angolo della memoria, quasi senza accorgercene. Sono errori che il nostro cuore preferisce allontanare, occasioni perdute che ci ricordano cosa non avremmo dovuto fare, o cosa avremmo dovuto dire di più. Sono il racconto che ci fa provare la stilettata della vergogna, o il morso della rabbia, o ancora il senso di vuoto di una fame che non è stata mai saziata. Gli amori di mezzo sono cicatrici, sono crepe nelle nostre fragili mura.
Quasi sempre.
In alcune rare volte, invece, gli amori di mezzo ci sorprendono: dopo averli abbandonati, ci guardiamo indietro e li ritroviamo completi, storie chiuse in loro stesse e colme di vita come gocce di pioggia, la cui promessa di felicità è scivolata via a un passo appena da noi, senza farci male. Ma sono amori rari, questi, da rimanerne incantati, domandandoci perché non proviamo rabbia, perché tutto ciò che resta è una vaga nostalgia, nonostante tali storie non possano beneficiare dell’indulgenza con cui si guarda al primo amore.
Ricordo ancora quell’estate di tanti anni fa. Ero giovane, incerta, e desiderosa di lasciare il mio stesso cuore alle spalle in attesa di tempi migliori. Non avevo bisogno di un nuovo amore: il primo si era sciolto come neve al sole soltanto qualche mese prima; il secondo, poco dopo, era nato male e finito peggio. Non cercavo qualcuno da sognare, al quale dedicare i miei pensieri nelle notti insonni. Non volevo nulla a parte il sollievo del mare, e quello, più leggero e imprudente, di un’estate passata con le amiche all’insegna della vanità. Sembrava tutto così semplice: lui era già lì, come il personaggio di una commedia da inscenare. Era quanto di più simile a un marinaio potesse esistere nella scenografia della mia vita. Di certo, da marinaio dovevano essere le sue promesse: era un bagnino su una spiaggia affollata, circondato da tante ragazze quante un giovane uomo ne avrebbe potute desiderare. Cosa mai avremmo potuto avere in comune? Perché avrei dovuto fidarmi di lui? Ci avvicinammo nel più usuale dei modi, fra canzoni sulla spiaggia attorno a un falò, serrando il nostro nodo al mattino con sguardi fugaci fra le dita che riparavano dal sole d’agosto. Perché avrei dovuto starlo ad ascoltare, quando tutto ciò che desideravo era che mi facesse sentire bella, e viva? Non mi pareva amore: era, per me, lo strumento della rinascita, il gioco con il quale passare un’estate, l’avventura che spazzava via insicurezza e malinconia. Era ciò di cui spettegolare con l’amica del cuore mentre ci si sistemava i capelli a vicenda prima di andare a ballare.
Lui era proprio quel che avrebbe dovuto essere: sabbia fra le dita e nel costume, sapore di salsedine e odore di mare, di birra, di gioventù. E anche io lo ero. Ero l’inconsapevolezza dei vent’anni, la solitudine ingoiata a forza assieme a un tiro di fumo, il pensiero che l’autunno fosse troppo vicino. Finimmo insieme senza motivo, come foglie cadute portate dalla corrente. Passammo le notti sulla spiaggia, aspettammo l’alba parlando di sciocchezze, deridendo il nostro futuro per esorcizzare la paura di crescere. Eravamo liberi e vivi, immortali. Eravamo nulla.
E quell’ultimo mattino di settembre fu difficile affogare i pensieri, quasi impossibile ignorare che l’autunno ci aveva infine raggiunti e afferrati ed era lì, di fronte a noi, nel cielo rosso. La vita da adulti ci aspettava, ai nostri occhi scarna e grottesca come una megera ghignante. In quell’ultimo istante di splendida, acerba imperfezione lui aveva qualcosa da dire, ma io non volevo ascoltarlo. Del resto, cosa avrebbe potuto mai raccontare, che io già non sapessi? Di certo avrebbe sussurrato che ci eravamo divertiti, che era stato un bel gioco, finché era durato. Sarebbero state quelle, le parole appropriate. Non era andata proprio così, dopotutto? I patti, seppur inespressi, erano stati da subito molto chiari: lui era il marinaio, io la ragazza nel porto che non avrebbe più visitato, e tanto era bastato. Io ero stata sua, e lui mio, ma non ci eravamo mai appartenuti davvero. Per questo, quando lui parlò, quell’ultimo mattino insieme, io non lo ascoltai. Colsi solo qualcosa che somigliava a un “andiamo”, e annuii con determinazione, iniziando a schiaffeggiare via la sabbia dalle gambe nude. “Sì, andiamo”, ribadii, senza degnarlo di uno sguardo.
“Non ho detto andiamo”. La sua voce suonò in qualche modo diversa, e mi fece rimanere immobile per un istante.
“E allora cosa hai detto?”. Non volevo saperlo, ma non potei impedirmi di domandare lo stesso. Conoscevo la risposta prima ancora che lasciasse le sue labbra… ma non poteva che essere una bugia. Doveva essere una bugia.
“Ho detto… ti amo”.
“Sì, come no?”. Non mi conoscevo una voce tanto dura. Non sapevo neppure da dove mi venisse. Ma non potevo concedermi il lusso di credergli, non quando l’autunno era ormai arrivato. “Non hai bisogno di blandirmi. Quel che è fatto, è fatto. Va bene così”.
Quando alzai gli occhi nei suoi, la sua espressione parve chiedermi scusa. Si strinse nelle spalle, accennando un vago sorriso, e voltò il capo, legando i capelli in una coda. Era tutto finito, prima ancora che potesse iniziare. Il giorno dopo io ero di nuovo in città, e lui sul primo treno per casa sua, distante centinaia di chilometri.
Per mesi mi ripetei che avevo fatto e detto la cosa giusta. Per lunghe notti rimasi sveglia a convincermi che dovesse aver sussurrato quelle sciocche parole a un’altra dozzina di ragazze in quella sola, ultima settimana. Mi chiesi perché lo avesse fatto, perché non avesse potuto lasciare che tutto scorresse liscio come avrebbe dovuto, perché avesse dovuto cercare di legarmi a sé con un nodo da marinaio che non aveva alcun diritto di intrecciare. Ma soprattutto, perché fosse stato tanto crudele da salutarmi regalandomi quell’ultimo dubbio, quel tormentoso “
e se fosse stato sincero?”
Compresi di essermi innamorata quando lui non era ormai altro che un ricordo, e fu come se la sabbia che aveva nascosto i miei sentimenti venisse spazzata via dal gelido vento invernale, lasciando emergere un disegno che non avevo potuto immaginare. Tutto si fece chiaro, e il cerchio si chiuse con precisione: più riguardavo quelle nostre poche foto, e meno c’era da capire. Eravamo stati felici insieme, abbracciati sul bagnasciuga, con il naso in aria. Più felici di quanto non fossimo preparati a essere, più di quanto io non credessi di meritare. Le nostre mani erano state sincere nel cercarsi e stringersi, ma le mie erano state troppo piccole allora, e troppo stanche, per contenere quell’amore inatteso.
Sono passati molti anni, e non so cosa sia stato del mio marinaio. Ma so che non provo dolore, né vergogna, quando ripenso a quell’estate da ventenne, con la sabbia fra i capelli e la sua pelle sotto le dita.
E quando mi guardo indietro, attraverso un lungo tempo e un ancor più grande spazio, mi sorprendo ad augurargli ogni bene, a sperare che ogni suo sciocco sogno da ragazzo, raccontato alle stelle su quella spiaggia silenziosa, sia stato esaudito: che egli abbia girato il mondo, imparato cento lingue, amato molte donne, e bevuto, fumato, cantato a sazietà.
La piccola goccia di pioggia che siamo stati noi due, insieme, è nata e vissuta nel respiro di un’estate. Il nostro è stato soltanto un amore di mezzo, di quelli per i quali non si sprecano parole, non si scrivono poesie, non si cantano canzoni.
Ma questa pagina è per lui, per il mio marinaio, per le sue promesse e per le sue risate. Per lui che è svanito senza rancori, senza dolore. Lui, che sarà sempre giovane nella mia memoria, sempre al centro di quel ricordo abbandonato, nascosto nella mia gioventù come una bianca conchiglia da portare all’orecchio per riscoprire il rumore del mare.

venerdì 1 aprile 2016

IL DESERTO BLU di Peppe Murro

Non era come quello che aveva conosciuto, questo deserto era blu e non giallo; e non era fatto di sabbia che ti si infilava dappertutto: questo deserto che gli stava davanti era fatto d'acqua.
 Non ci si poteva correre ma era bello quando soffiava il vento e si muoveva increspandosi di schiuma. E poi c'era un profumo strano nel vento, nuovo e delirante, qualcosa che da dove lui veniva non aveva mai sentito: il vento del suo deserto era lieve, ma sferzava come una voce d'uomo, quel vento azzurro invece era leggero, profumato come una carezza di madre.
Lo guardava con un'ansia meravigliata e sottile, mentre la mano di suo padre lo spingeva in avanti e lo sollevava.
Che strano quel dondolio continuato... faceva persino dimenticare la calca delle persone che si affollavano intorno, in un vociare lamentoso e isterico, fatto di imprecazioni di preghiere di cantilene sommesse e ossessive.
Pian piano fu solo il vento e la terra che si allontanava, e il sapore aspro dell'acqua sulle labbra e la voglia di rannicchiarsi fra le braccia del padre.
Il buio urlò senza preavviso, il vento iniziò a colpire con urti d'acqua: non aveva più profumo né dolcezza. Sentì qualcuno pregare, si strinse al padre.
Poi più nulla.
Guardava ancora il suo deserto blu.
La sua foto a pancia in giù, le mani stranamente composte lungo i fianchi, il viso verso un mare nemico senza saperlo, fece il giro del web appena il tempo di commuoversi e di scandalizzarsi , e poi fu dimenticato.
(Altri che non hanno il suo nome, altri verranno a quel deserto azzurro dove nacque Venere)