domenica 31 luglio 2016

CENTO LIRE di Giuseppe C. Budetta

Mi chiamo Pasqualino Pagliarulo. Sono portiere dello stabile numero tre, al centro di Via Chiatamone. Il palazzo di cui mi onoro di prestare servizio da oltre la trentina di anni è molto antico. Dopo il terremoto dell’Ottanta, fu pure restaurato da cima a fondo ed ora sembra un miscuglio fuori dal tempo: opera di un architetto del Settecento e della Sovrintendenza comunale post-terremoto. Quello che mi ha preceduto qui, prima di ritirarsi in pensione, trapassando poi in aldilà, mi fece la cronistoria dello stabile che avrei ereditato in qualità di portiere. Alzando l’indice ammonitore, don Vincenzo o’ scurticato disse che avrei fatto bene ad insuperbire nell’essere stato nominato portiere dell’abitazione che nel passato ormai remoto, appartenne niente di meno che ai fratelli Filomarino: il duca Ascanio e Clemente. Il primo fu matematico e vulcanologo, il secondo inseguì la gloria come poeta e letterato. Come a dire, a te le Scienze, a me le Muse. I due fratelli furono amici della Fonseca Pimentel, di Antonio Jerocardes e d’altri patrioti protagonisti della Repubblica Partenopea, proclamata il 27 gennaio del 1799. Quasi tutti questi signori, per la precisione, fecero una brutta morte e pace all’anima loro. Vi domanderete perché voglia ricordare questi fatti, esulanti dalla reale professione di custode. Ebbene, in una stanza a pian terreno c’era fino a qualche anno fa un piccolo museo di anticaglia, appartenuta nei tempi andati ai Filomarino. Che so io, uno specchio incorniciato, un mobiletto, uno scrittoio, quadri antichi con uomini, alberelli e cavallucci, delle lettere scritte a mano impolverate, dei vestiti d’epoca merlettati e poche altre cose di poco conto come libri voluminosi e strambe statuine. A suo tempo, ebbi la duplice mansione di custode dello stabile oltre all’incarico con regolare forfetario emolumento comunale, di sorvegliante le reliquie dei Filomarino patrioti e martiri. Di tanto in tanto, arrivava bello e tosto un ispettore della Sovrintendenza a controllare se stava tutto in regola. Questo ispettore, alquanto riservato e scorbuto, guardava qua e là con le mani dietro la schiena, fiutava come un segugio l’aria polverosa dello stanzone, scriveva qualcosa su un taccuino e se ne andava con la faccia di cazzo, senza quasi salutarmi. Veramente, il comune voleva dare l’incarico ad un disoccupato della LSU, ma l’assemblea condominiale si era opposta a mio favore. Mi veniva la malinconia vera quando dal finestrone in alto, attraverso la vetrata e le inferriate contro i ladri, l’ardore del tramonto estivo si spegneva sulla quinta in alto parendo di dipingere i vecchi mobili e le tappezzerie d’inchiostro rosso: in quel mentre, la specchiera di un mobile con la cornice dorata sembrava una lastra di sangue, tipo Profondo rosso di Dario Argento. In mezzo a tanta gloriosa antichità, avevo la sincera impressione di essere come un baccalà appeso ad essiccare. Adesso, tutta quella roba è stata trasferita in un apposito museo dalle parti di Portalba ed ho di conseguenza perso la extra comunale sovvenzione forfetaria. Ma non fa niente. Quel museo di cianfrusaglia polverosa era una responsabilità coi tanti ladri d’antiquaria in giro. Mia moglie lo dice sempre ed io acconsento: “Meglio accontentarsi del poco e non rischiare.”
Mia moglie sospira e dopo un poco conclude con la riflessione:
“San Gennaro vede e provvede sulla povera gente come noi.”
AMEN.
Lo stabile è allocato quasi al centro della città. Ecco qua. Vado davvero orgoglioso d’abitare proprio qui. Solo la domenica pomeriggio la zona è movimentata dalle bande dei tifosi, diretti a Fuorigrotta. Per il resto, si tratta di un quartiere tranquillo ed aristocratico. Ci abitano professionisti d’alto borgo. Tanto di scappellamento, eseguo volentieri quando i tifosi partenopei mi passano, gridando viva il Napoli. Passano a gruppi, agitando i bandieroni, alcuni in auto altri a piedi. Passano con allegria proprio davanti alla guardiola che mi onoro di occupare, come ho detto da un trentennio e passa. Mettono la gioia addosso anche a me come la vigilia di una festa.
La domenica mattina, mi sveglio sempre con la noia addosso. Sarà per la troppa gente che rimane nel palazzo per il domenicale riposo, oppure per la vecchia ingobbita del terzo piano che va a messa troppo presto. Porta male la gobba e pure la vecchia che di domenica ti passa davanti triste e claudicante. E’ una domenicale scontrosità che scende in me, aggravata dalla vecchia con la gobba che guarda appena e passa. Fatto sta che ai saluti rispondo in malo modo. Me ne guardo dal rivelare i reconditi pensieri che mi porto chiusi in petto. Qualcuno per esempio, scendendo lesto per le scale e passandomi davanti con una specie di sorriso, fa la domenica mattina:
“Salutammo marescià.”
Rispondo con garbo e con pazienza, sollevandomi il berretto inamidato e intanto dico sottovoce:
 “Salutami sto’ cazzo.”
Un altro pimpante di domenica mi fa: “Hasta la vista.”
Rispondo col cenno muto e dico senz’essere udito:
“Hasta a soreta.”
A volte, ascolto due inquilini ragionare di politica mentre sostano sotto l’architrave del portone. Sto in ascolto, ma senza intervenire in prima persona perché non si sa mai. Giorni fa, un locatario del primo piano ragionava di politica nostrana con uno del quarto, ma della scala attigua. Dicevano più o meno queste cose: “L’onorevole democristiano Longo Vito è originario dei Quartieri spagnoli.”
Si erano rivolti con la faccia verso di me, chiedendomi:
“Sapete chi è Longo Vito? Adesso, è pure ministro.”
Di spontanea volontà, dico di non saperlo. Non si sa mai, uno dice una cosa ed alcuni lo fraintendono. Per questo in politica, faccio sempre l’indifferente. I due si erano messi a dire altre cose su questo Longo Vito, come un nuovo padreterno: “L’onorevole Longo Vito alla scorse elezioni ha avuto oltre le 150 mila preferenze. Vuoi entrare di ruolo nell’amministrazione pubblica? Rivolgiti alla segreteria di questo onorevole che fa miracoli. Vuoi un posto di ruolo all’ENEL? Vai dal segretario di questo onorevole e non ci sono problemi.”
Girandosi di nuovo verso di me, hanno chiesto:
“Don Pasquale, perché non vi rivolgete a Longo Vito, lui vi sistemerà come custode all’ENEL e guadagnerete quattro volte più di qua.”
Rispondo che ormai ho gli anni, che tra non molto sarò pensionato e che non me la sento di lasciare Via Chiatamone, dove mi ci sono affezionato.
Ne ho fatta di strada prima di capitare qui. Nacqui sessant’anni fa in Via Volpicella, alla periferia di Napoli Est. Per via di certi morti ammazzati, quel quartiere adesso è nominato il Texas. C’è anche il bar con le ante girevoli come nei film del vecchio West. Il bar indovinatelo un poco, sapete come si chiama? Si chiama Bar Texas. Per barriste, ci sono due ragazze dalle facce vogliose come vere zoccole.
Qui a Napoli una volta si mettevano i soprannomi alle persone come per esempio: Pasqualino o’ Chiavico oppure a’ Chiavica, a seconda dei punti di vista. Mo’ i soprannomi si mettono ai quartieri per intero: l’evoluzione della specie. Ho sentito per il tg3 che ieri l’altro hanno ammazzato uno proprio per la strada dove abitavo io. Dicono che c’è guerra di camorra e c’è la droga a fiumi.
Di domenica quando mia madre era ancora in vita, mi recavo in quella lontana via a farle visita. Adesso che non c’è più, non mi muovo da qui per nessuna ragione. Lì in quella via di periferia, ci sono i ricordi di ragazzo quando crescevo coi genitori ancora vivi. Mio padre faceva il tranviere e la sera alle otto e mezza tornava a casa con il fagotto del pane che in parte aveva mangiato ed in parte conservato per la cena in famiglia. Ah! La mia vita è come divisa a metà. Un poco di là, in Via Volpicella ed un poco di qua, nella nobile Via Chiatamone. Il mio passato, il mio presente.
Sarà l’età, o il mestiere privo di emozioni, ma soprattutto il pomeriggio, mi annoio assai. Non mi va più di passeggiare, dandomi mia moglie il cambio nella guardiola. Una volta me ne andavo spesso per Via Partenope sul lungo mare, assaporando la brezza marina che tanto bene fa ai bronchi. Vedevo le creste dei monti sopra Sorrento farsi nere contro il cielo rosso che si andava scurendo. Vedevo verso le periferie dove anch’io nacqui, col cono del Vesuvio sopra e sospiravo.
Adesso appesantito dal grasso, mi siedo mogio mogio sulla sedia infossata ai lati del portone e guardo apatico la gente che frettolosa passa, senza quasi darmi una guardata. Tranne gl’inquilini dello stabile che mi salutano, la gente per la via mi vede e non mi vede, e se mi vede tira avanti come se niente fosse. Anzi, non bada proprio a me, seduto in posa da prelato, stracquato sotto l’arco del portone in atavico raccoglimento. Dico: un saluto almeno col cenno della testa…Uno sguardo di compiacimento e d’incoraggiamento per la vita di merda che mi meno addosso. In agosto, quando la gente se ne sta spaparacchiata al mare e la strada davanti alla mia postazione è liscia e vuota, mi piace osservare le carte che rotolano un poco, spinte dalla brezza marina, o che sostano traballanti sul luccicante basalto. Ho la puerile pulsione di raccattarle, appallottolarle in un’unica massa; quasi quasi le porterei alla bocca o come fanno a volte gli scugnizzi di giocarci a pallone. D’estate, vanno qua e là pezzi di giornale cotti dal sole, secchi e fragili come foglie morte, o come anime in pena che nessuno vede. Alcuni di quei fogli sono così gialli che si può crederli macchiati di urina, proprio quella che stagnava anni fa dentro le chiaviche del Chiatamone. D’inverno, ci sono foglietti che prima erano bianchi, ma che incollati per terra dalla fanghiglia, pestati, sminuzzati, macchiati, finiscono col diventare grigi grumi lanosi. Altri, nuovissimi e perfino inamidati, tutti bianchi, palpitanti nelle limpide giornate d’autunno, sfiorano il suolo planandosi per l’aria, ma già la terra l’invischia dal disotto. Si torcono, si strappano dal terreno fangoso che ricopre tutto il basalto. I fogli bianchi ed anonimi prendono il volo sugli alberghi di Via Chiaia e poi si liberano del tutto dalla terra, salgono in alto come aquiloni sul mare cresposo del Chiatamone. Altre cartacce non del tutto bianche, non ce la fanno a sollevarsi e vanno ad appiattirsi in pianta stabile un po’più in là, sotto i marciapiedi. Tutto questo è bello da vedere. Talvolta vado a raccogliere tutte quelle carte stinte. Le raccolgo con la dovuta pazienza, le osservo un poco da vicino e nello spiazzo verso Calata Santa Lucia ci do fuoco.
Una volta, una signora inciampò contro il dislivello del marciapiede proprio davanti a me, buscandosi la distorsione alla caviglia che qui a Napoli (tale distorsione) si chiama storta. Mi ero alzato dalla sedia con la dovuta fretta e mi ero offerto di sollevarla per le braccia. La vecchierella si era messa a gridare per il dolore alla caviglia e poco dopo portata alla croce rossa da un passante con la sua auto. Qualcuno vedendo il marciapiede mal messo aveva gridato contro il comune che non aggiusta la viabilità:
“Bella schifezza.”
Riflettendo sulla disgrazia toccata alla signora, arrivai  a notare un particolare che m’illuminò la mente. Il particolare è questo.
A causa delle auto parcheggiate dall’altro lato della carreggiata, gli autobus di linea passano con le ruote sopra il marciapiede. Si è prodotta un’incavatura col lastrico di basalto che fa da marciapiede abbassatosi ad un estremo, sollevandosi di qualche centimetro dalla parte opposta. L’anomalia del suolo che una volta era piano e su cui i passanti poggiano le scarpe è appena visibile, per questo molti inciampano con la punta della scarpa. La dinamica è la seguente. La scarpa preme in punta contro il siliceo rilievo di appena qualche centimetro. Il malcapitato porta subito, in avanti l’altro piede che scivola sulla depressione del basalto dovuta come ho detto, al peso delle ruote dei pullman. Il malcapitato se provvisto di ottimo equilibrio, allunga le braccia e barcollando frena la caduta e si raddrizza con un colpo dei lombi. Ma se è anzianotto coi riflessi lenti, oppure ha un attimo di distrazione, allora la caduta è inevitabile: patapunfete. A volte, ondeggiando paurosamente come un pioppo nel forte vento, l’individuo non cade, ma si busca una storta fenomenale che lo obbligherà a restare a letto per parecchi giorni. Dal mio appostamento, seduto sotto l’arco del portone notavo che poca gente rovinava a terra a causa del lastrico deformato. I più accorti, si portavano raso al muro. Altri rallentavano l’andatura imprecando contro il comune che non fa i lavori pubblici. Mi consolavano le critiche alla comunale corruttela e rispondevo di conseguenza:
“Bella schifezza.”
Per incrementare il numero dei disgraziati che cadevano come pioppi sul basalto, malignamente escogitai lo stratagemma. Prima di dire di che si tratta, voglio rivelarvi come mi è arrivata l’idea. E’ stata una pura ispirazione, frutto dei miei pensieri più reconditi e profondi. Un giorno camminavo mogio, mogio lungo Via Partenope. Mi godevo a bocca aperta la giornata bella che sapeva di primavera. Di là, c’era Castel Dell’Ovo con la scogliera in mezzo al mare e di qua il flusso inquinante delle auto. Il mare scaglioso, pieno di luce mutevole e lieve. Il cielo era splendido e azzurro, di quel colore che ti riempie il cuore di gioia. Sull’ampio marciapiede a mattonelle passava gente, frettolosa o riguardosa. C’era qualche turista con la super-otto a tracolla e non mancava la vecchietta col cagnolino. Notai per terra la sagoma rotonda di una cento lire, perduta nella fretta chissà da chi. Il malandrino soldo rifletté invitante la luce del giorno. Non mi sognai proprio di raccattarlo per via dell’artrosi. Una volta con cento lire ci si comprava qualcosa. Adesso, non la volevano neanche per la mancia del caffè.    Però, la momentanea distrazione mi causò una distorsione. Scivolai su una scorza di banana che avrei notato se non avessi girato lo sguardo sul maledetto ed insignificante soldo. Caddi male, pressando col peso del corpo su un solo piede solo che si piegò, mandandomi infine a terra col deretano floscio.
“Oh poverino! Di certo un capogiro.”
Esclamò una donnina che non aveva capito niente. Ero caduto perché c’era stato in me un impulso trasgressivo, più fine della ragione. Sapevo che non era il caso d’inchinarmi a raccogliere la cento lire. Però mi ero distratto per un istante e questa fu la vera causa.
Ciò premesso, ecco cosa feci. Presi una cento lire nuova di zecca, la inumidii con l’alito e la lucidai con uno straccio di lana. Piazzai la moneta sulla carreggiata in vicinanza del marciapiede malandato. Per la precisione, la moneta distava dal bordo del marciapiede circa venti centimetri e dal dislivello del lastrico contro cui inciampavano le punte delle scarpe, circa mezzo metro. Con tale angolazione era assicurata la distorsione. Inoltre, proprio lì l’ampiezza del marciapiede era ed è provvidenzialmente ridotta dalla sporgenza dell’arcata del portone. Avevo calcolato bene le simmetrie, camminando come un vero passante e fissando quindi la cento lire a terra. Nel momento in cui si richiedeva la massima attenzione per evitare d’inciampare sul gradino e riguardarsi dalla sporgenza in strada del portone, l’occhio andava diritto verso la lucida moneta. Come a dire, in un momento d’anarchia, l’occhio non ubbidiva ai comandi della mente. Oppure, come un cagnolino distratto dalla carne appesa in una macelleria che non risponde subito ai comandi del padrone.        
Quel mattino segnalai sul taccuino due scivolate e una storta classica. Una donna con la borsa della spesa piena, zeppa di alimenti era rovinata diritta a terra, spandendo sul basalto della carreggiata mele e pomodori di San Marzano. Poco dopo, toccò ad una signorina che evitando di guardare me seduto sotto l’arcata del portone, girò a terra gli occhi e vide la monetina. Mi sembrò che il suo sguardo per un attimo s’illuminasse. Pensai soddisfatto: la trappola è scattata! La signorina in quel lasso di tempo distratta, inciampò come previsto sul dislivello e scivolò diritta a terra. Emise acuto grido disperato. Le dissi a bassa voce: TIE’!
La storta alla caviglia  - la classica storta -  toccò ad un signore che abita tuttora nei paraggi. Nell’inciampare, questo signore ben vestito genuflesse le gambe in bilico. Poi, cercando di sollevarsi, scivolò con una delle scarpe nuove sul fatidico dislivello e si accasciò di lato a terra dolorante. Mi sporsi verso il malcapitato, facendo finta d’aiutarlo. La sua faccia fu contratta dal dolore. Se ne andò imprecando e zoppicando e senza dirmi niente.
 A furia di godere per le altrui distorsioni capitate alla distratta gente, mi sentivo meglio. C’era in me una punta d’autentica soddisfazione. A letto a sera, davanti al televisore, raccontavo alla consorte le disavventure capitate alle persone davanti al mio portone. Chiese incredula mia moglie:
“Come mai scivolano tutti lì?”
“E’ per via del marciapiede, inclinato da una parte.”
“Chi lo ha inclinato?”
“Che domanda intelligente. Sono state le ruote dei pullman, costrette ad allargarsi a causa delle auto parcheggiate abusivamente sul lato opposto della carreggiata.”
Di sana pianta, mia moglie disse:
“Domani vado al municipio a protestare. Devono aggiustare il marciapiede.”
Mi salì dal basso ventre un arido cipiglio:
“Non ti permettere!”
“E perché?”                                                                                                        .
“Perché... perderemo la nostra pace. Verranno con le trivelle e le impastatrici e faranno un rumore infernale chissà per quanto tempo. Per favore, non t’impicciare.” ,
“E se ad inciampare fossimo noi?”
“Non ti preoccupare. Tu passa rasente il muro, guarda davanti a te e vai piano. Vedrai che non cadrai.”
Mia moglie ammutolì senza convinzione, girandosi di lato.
Una volta, passò una persona ben vestita, distinta e con un’alterigia da fare rabbia. Si guardava in giro con aria schifata e tracotante. Due volte passò davanti a me, seduto sotto l’arco del portone e per due volte col naso in su, evitò la scivolata. Pensai che quello era davvero un uomo di merda. Doveva essere anche molto ricco per non badare ad una misera cento lire a terra. Uno talmente ricco da schifare perfino i soldi di ogni tipo.
Non lo conoscevo, ma certe cose s’indovinano da sole. La terza volta che quell’uomo di merda mi passò davanti fu bello. Aveva un ombrello in mano perché piovigginava, una pioggerella sottile che appena si percepisce. Stavo seduto al mio posto, con la vecchia sedia che per il mio eccessivo peso si è scufanata al centro. Forse perché non guardò per aria a causa dell’ombrello aperto che gli vietava la vista in su, fatto sta che rivolse lo sguardo a terra. Osservò la fatale monetina e scattò la trappola. Calzava scarpe a punta nere e ben lucidate di cuoio vero. Sbatté sonoramente con la punta della scarpa sinistra contro lo scalino. L‘altra scarpa rimase titubante a mezz’altezza. Di rimando, il suo busto ondeggiò come trottola, scuotendo il cappotto di qua e di là. Sembrava una ballerina del Mercadante che fa la mossa. Vidi allora in rapida successione: la sua faccia disperata, gli occhi allarmati lanciare S.O.S., le braccia aperte con le dita come a ghermire l’aria, la scivolata immediata sul basalto malandato, il tonfo e il grido di dolore, Ahii!
Era finito in malo modo col labbro sullo spigolo del marciapiede sbilenco. Uscì del sangue ad un labbro che l’uomo cercò di tamponarsi col fazzoletto. S’era sporcato il cappotto ed anche la giacchetta di pura lana vergine. Mi chiesi: era vera, quella faccia contratta dal dolore, o l’altra prima della caduta, piena d’alterigia e tracotanza? Mi precipitai a soccorrerlo e dissi esterrefatto: “Mi dispiace.”
L’uomo si guardava attorno allibito ed incredulo, mentre del sangue continuava ad uscirgli dal labbro rotto. Poco dopo, pressandosi un fazzoletto sulla bocca, se ne andò via di corsa con un cenno appena di ringraziamento.
Un paio di giorni dopo, c’era stato un acquazzone e tutta Napoli si era inumidita, sotto il sole pallido, sporgente tra le nuvole. Via Chiatamone infreddolita conservava tutto il suo fango, le cartacce e le pozzanghere di traverso ai marciapiedi. Nel pomeriggio, inciampò una signorina, finendo con la testa diritta sui piedi miei. Non vidi berne la scena, perché guardavo altrove. Cadendo emise un gridolino incredulo. Gridai di conseguenza:
“Figlia!”
La mia esclamazione sembrò di uno un poco dispiaciuto per davvero. Era finita con la faccia sbiancata proprio dentro una pozzanghera. Splash. Aveva al petto una chiazza fangosa che s’allungava sul cappottino di astrakan e s’intrufolava sotto, sulla maglietta beige alla dolce vita. Feci finta di prodigarmi a rialzarla. La sollevai per un braccio. Era tutta sporca di fanghiglia, compreso il piatto delle mani. Voleva piangere come una bambina. La faccia contratta dal dolore. Cercò di mettersi in sesto e di pulirsi col fazzoletto. Si strofinava la maglietta con stizza. Mi guardò intristita e mi spiegò:
“E’ stato per via di quel soldo. Quella cento lire caduta proprio lì. L’ho vista, mi sono distratta, sono scivolata sul marciapiede sbilenco e sono caduta. Meno male che non mi sono rotta un osso.”       
Affranto, le offrii di sedersi al posto mio. Ammiccando, disse di no e riconoscente mi regalò un astuccio di caramelle. Dissi tra me e me:
“E che ci vuoi fare? sono stati quei due, tre secondi di distrazione che ti hanno fottuta. Figlia mia, un’altra volta impari a non distrarti per un soldo, sia pure per un attimo di tempo.”
Però, una volta passò una zingarella che non solo non inciampò, ma si precipitò a raccattare la monetina imperlata di brina. Scattai dal seggiolone e con il manico del bastone, le misi una tal paura addosso che non l’ho più vista passare. Con un balzo fulmineo s’era impadronita della cento lire e fuggita via. Fui costretto a mettere nel solito posto una nuova cento lire. Devo ammettere che il tranello non è valido per la gente che viene dalla destra, perché il marciapiede è inclinato in malo modo, in senso opposto. La gente che passa da sinistra è bella e fritta: devia la sporgenza del portone, guarda a terra la monetina sul davanti ed inciampa facilmente sul detto dislivello.
Certe volte, penso che mi sono incattivito. Penso che sono diventato un uomo di merda. Sarà l’età. Sarà che mi sono appesantito. Però, poi rifletto. Se la gente tralasciasse l’idea fissa che ha dei soldi, farebbe più attenzione ai propri passi. D’istinto invece, lo sguardo cade sulla insignificante monetina ed inciampano. La colpa non è mia, ma dell’atavico attaccamento all’idea del denaro.
 

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