domenica 10 luglio 2016

EMIGRANTI di Paolo Secondini

       Ai miei nonni
Ottobre 1907
«Quella cos’è, Vincenzo?»
Appoggiata col busto al parapetto della nave, la donna tendeva il braccio verso una statua che, ancora distante, si ergeva verde e maestosa, come emersa dal mare, nel porto di New York.
L’uomo guardò dapprima sua moglie poi, incuriosito, quello che lei indicava.
«Credo… credo che sia la statua della Libertà,» rispose dopo un momento d’esitazione. «Ce lo scrisse Pasquale, il nostro amico che vive in America da qualche anno… Scrisse che questo è un grande Paese, dove c’è posto per tutti, per chiunque abbia voglia di lavorare, come noi due, Filomena.» Restò in silenzio, gli occhi fissi a osservare il volto grazioso di sua moglie, sul quale spiccavano occhi castani colmi di dolcezza. «Questo è il mondo che abbiamo sognato,» riprese Vincenzo con calore, «il mondo in cui, lavorando e vivendo onestamente, costruiremo il nostro futuro.»
La donna si strinse al marito e stette a guardare la statua della Libertà alla quale la nave, seppur con lentezza, si avvicinava.
Seguirono alcuni momenti di silenzio.
«A che pensi, Filomena?» chiese d’un tratto Vincenzo cingendo col braccio le spalle della moglie.
«Ho tanta… paura,» lei balbettò debolmente. «Non so per quale motivo.»
I dubbi, dai quali era stata assalita già prima della partenza dal porto di Napoli, e che durante il viaggio sembrava avere fugato grazie alla presenza del marito, tornarono prepotentemente ad affacciarsi alla sua mente, a turbare il suo animo.
«Paura?! Paura di cosa?» le chiese Vincenzo in tono deciso. Con una lieve pressione della mano costrinse sua moglie a voltarsi, a guardarlo negli occhi. «Niente e nessuno ti faranno del male finché starai al mio fianco,» soggiunse deciso. «Ce la caveremo, esattamente come Pasquale e tant’altri che sono emigrati prima di noi e che ora hanno una casa, un lavoro e cibo tutti i giorni.»
Filomena rimase a osservare il viso un po’ scarno del marito, restandone come ogni volta affascinata. Era davvero un bell’uomo, Vincenzo: lineamenti marcati ma regolari, baffi neri e sottili, capelli folti, leggermente ondulati, fronte alta e spaziosa. Lei sentiva di amarlo immensamente.
Si strinse più forte al suo corpo e distese le labbra a un sorriso, che le parve arrivare direttamente dal cuore.
Era sicura delle parole del marito, di cui conosceva il carattere dolce e forte nello stesso tempo. Sì, al suo fianco non aveva paura, perché lui l’avrebbe protetta da ogni pericolo, da qualsiasi insidia, come sempre del resto aveva fatto. Sentì il desiderio di dirglielo espressamente.
«Vicino a te, Vincenzo, non temo niente e nessuno… Ma cosa faremo in questo Paese a noi sconosciuto?» chiese subito dopo, con lieve tremore nella voce.
«Troveremo un lavoro e una casa, sta’ tranquilla,» lui le rispose cingendo il suo busto con le braccia, «a New York o magari a Utica, dove vive Pasquale. Ci aiuterà, vedrai, se all’inizio avremo problemi o incontreremo difficoltà. Pasquale è più di un amico per noi… un fratello. Siamo andati sempre d’accordo. Mai un litigio, neanche un piccolo screzio tra noi.» Scosse sua moglie delicatamente, poi continuò: «Siamo qui per restare, Filomena. Restare per sempre.»
«Restare?» lei esclamò con stupore. «Restare per sempre in questo Paese? E nostro figlio in Italia? Lo hai forse dimenticato?»
«Certo che no! Ci raggiungerà tra qualche anno, non appena sarà cresciuto. Ne abbiamo discusso più volte, ricordi? Qui troverà tutto quello che vuole. Potrà studiare o magari cercarsi un lavoro. C’è posto per tutti, te l’ho detto. Anche per lui.»
Rannicchiata fra le braccia del marito, Filomena avvertiva il calore del suo corpo, mentre una brezza leggera le scompigliava, delicatamente, i neri capelli sulla fronte. Per un po’ ella stette in silenzio, seguendo con lo sguardo il volo di alcuni gabbiani che, con le candide ali, lambivano la superficie increspata del mare; infine, poggiata la testa al petto del marito, chiese, quasi mormorando:
«E il nostro paese, la nostra patria? Mio padre, mia madre, tua sorella… che cosa sarà di loro? Che faranno? Ci hai pensato, Vincenzo?»
«Tireranno avanti come sempre hanno fatto. Qualche aiuto lo avranno da noi. Gli spediremo un po’ di denaro ogni mese, perché provvedano anche ai bisogni di nostro figlio, che con loro è al sicuro… Ma questa è la nostra vita, il nostro sogno, cui non possiamo rinunciare. Abbiamo fatto tanti sacrifici per pagarci il viaggio. Ora siamo arrivati… Siamo in America, finalmente!»
Filomena non rispose: un nodo alla gola glielo impedì. A stento trattenne una lacrima. Circondò con le braccia la vita di Vincenzo che, a sua volta, le appoggiò una guancia sulla fronte.
In quel momento egli avrebbe voluto accarezzarla, baciarla sulle labbra, ma non poté: non erano soli.
Assieme a loro infatti, gomito a gomito, altri emigranti italiani, affacciati anch’essi al parapetto della nave, osservavano, con animo pieno di ansia, quel mondo nuovo, sconosciuto, attraente e spaventoso al tempo stesso, dove speravano di iniziare una vita diversa, migliore di quella che si lasciavano alle spalle.
Intorno si udivano risa, sospiri, un vociare confuso, il pianto di un bimbo e, su tutto, una breve e semplice parola, quasi gridata con speranza, con ardore:
«America… America… America.»
Filomena e Vincenzo si volsero ancora a guardare la statua della Libertà ormai più vicina, in modo particolare il braccio possente e teso a sorreggere una torcia, la cui fiamma di bronzo, però… non irradiava né luce né calore.

 

 

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