Era di una pinguedine esagerata. Stava seduta per delle ore su una sedia
impagliata che scompariva del tutto sotto la sua mole. Faceva l’uncinetto e si
godeva l’ombra di una pianta che stendeva i rami sull’ingresso del negozietto
di alimentari.
Dopo il deserto della controra, la piazza cominciava a rianimarsi.
Un’arietta asciutta rendeva gradevole il clima di quella bella giornata di
luglio. Era la tipica situazione atmosferica che Giuseppe godeva in quel paese
dell’Alta Irpinia. Suo padre, originario del posto, vi trascorreva i due mesi
di vacanza con tutta la famiglia.
Il ragazzo si avvicinò alla donna.
– Avete del riso? – domandò con voce un po’ incerta. Nonostante la
bonarietà casalinga, la bottegaia gli incuteva un po’ di timore. Aveva infatti
due folte sopracciglia e lineamenti spigolosi.
Lei distolse lo sguardo dal suo lavoro e squadrò il ragazzo con
espressione vagamente inquisitoria.
Giuseppe provò una sensazione di insicurezza. Sapeva che il riso non era
molto presente (anzi, per niente) nelle abitudini alimentari del posto. Non
voleva apparire come il classico settentrionale che si attaccava ciecamente ai
propri gusti culinari. Il paese, in fondo, gli piaceva, come pure la gente; si
sentiva in un certo senso attirato da quel modo di vivere tanto diverso da
quello che usava per il resto dell’anno. E le cose stavano così grazie alla
metà di quel sangue che gli scorreva nelle vene. Ma la mamma, settentrionale
pura, aveva deciso di farsi un risotto alla milanese, utilizzando una bustina
di zafferano che aveva portato da casa. Sì, dopo giorni di pasta al pomodoro,
mozzarelle, caciocavallo, verdure di stagione e frutta, le era venuta la voglia
di quel piatto meneghino.
La grassa padrona del negozio lo fissò a lungo. Poi scosse bonariamente
il capo e disse:
– Lo teniamo… Sì, lo teniamo, il riso. – Sembrava che parlasse di una
sostanza rara e preziosa.
– Ne vorrei un chilo.
– Trase, ‘uagnon’, e vattelo a piglia’...
Con passo incerto Giuseppe entrò nel fresco e buio negozietto. Guardò
nella merce accatastata lungo una parete. Ma non vide il riso.
– Non lì, ‘uagnunett’… dall’altro lato. – Lei dava le indicazioni senza
spostarsi di un millimetro dalla sedia. Era nel frattempo tornata
all’uncinetto.
Finalmente lo trovò. – Quanto costa?
– Trecentocinquanta lire.
Le si avvicinò con il sacchetto di riso, esibendo un biglietto da
cinquecento.
Lei guardò il denaro come se fosse una cacca di cane. – Non le tenete
trecentocinquanta...
– No.
– E vatt’a piglia’ lo riest’.
Standosene sempre seduta al suo
posto, lo indirizzò al banco. E lui fece l’operazione da sé. Ficcò la banconota
nel cassetto e contò le monetine che doveva intascare.
– Non quelle da dieci, mi raccomando. Le devo dare in chiesa, per
l’elemosina.
Giuseppe annuì.
Tornato davanti a lei, le fece vedere il resto. – Controllate.
Ma lei non alzò gli occhi dall’uncinetto. Non per fiducia, pensò
Giuseppe, ma per semplice pigrizia. Il dargli ulteriormente retta le sarebbe
costata una fatica di troppo.
Uscì dal negozio con il suo pacchetto di riso.
Avviandosi di buon passo verso casa, Giuseppe sorrideva. Ecco perché
quella grassona veniva chiamata la “Terremoto”.
Simpaticissimo racconto, caro Giuseppe.
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