venerdì 27 maggio 2016

L’IRRUENTE GAUGUIN di Paolo Secondini

  

   Arles, 1888.  
   L’oste era un uomo sulla sessantina, basso, tarchiato, dalle sopracciglia cespugliose, dalla testa calva e rotonda come una palla da biliardo. Se ne stava con aria imbronciata dietro il bancone di zinco a osservare i pochi avventori che, seduti ai tavoli, bevevano vino o liquori. In particolare egli scrutava un tipo robusto dai capelli castani, dal naso grosso e aquilino, con davanti una bottiglia di assenzio quasi vuota.
   L’oste era in ansia. Ripensava all’ultima volta in cui quel tipo, il pittore Paul Gauguin, ubriaco fradicio, aveva buttato all’aria, come una furia scatenata, gran parte del locale. Soltanto in parecchi e con molta fatica si era riusciti a bloccarlo, a renderlo inoffensivo prima che procurasse altri danni.
   Ma ora, a osservarlo con attenzione, non pareva che fosse ubriaco né tanto meno agitato; sembrava piuttosto immerso in pensieri i quali, a giudicare dall’espressione crucciata del viso, non dovevano essere lieti.
   Dalla strada antistante al locale giunse d’un tratto un rumore di passi, in quel freddo ma chiaro mattino invernale. L’oste volse rapidamente la testa a sinistra, verso l’ingresso del proprio locale, e vide per qualche momento la scarna figura di un uomo che ben conosceva. Si trattava dell’olandese – come tutti chiamavano ad Arles Vincent Van Gogh –, la cui barba e i capelli rossicci erano inconfondibili, come pure i suoi abiti sporchi e sdruciti: sempre gli stessi, ogni giorno della settimana.
   L’oste lo vide passare curvo in avanti, con in mano una valigetta sporca di colori, sotto il braccio una tela e in testa un cappello marrone a larghe tese. Si girò a guardare Gauguin.
   «Monsieur?» chiamò con voce squillante. «Proprio adesso è passato Van Gogh, il vostro carissimo amico. Portava con sé l’occorrente per dipingere.» Fece una pausa, attendendo una risposta che non venne. Poi, dopo essersi un poco schiarito la gola: «Non lo raggiungete, monsieur?»
   I gomiti sulle ginocchia e la testa tra le mani, Gauguin rimase in silenzio, le mascelle leggermente serrate.
   «Ma che cosa gli prende talvolta al vostro amico?» l’oste soggiunse. «Ha un carattere molto irascibile. Litiga spesso con tutti qui dentro, come se tutti gli dessero fastidio. Eppure nessuno parla con lui, né gli rivolge il saluto… Forse è proprio per questo che monta subito in bestia. È un tipo davvero bizzarro, lunatico. Ho l’impressione che Van Gogh non sia una persona normale o, comunque, molto equilibrata… Badate, monsieur, non è mia intenzione di offenderlo né, tanto meno, mancargli di rispetto.»
   Gauguin continuò a non rispondere, né a muovere un muscolo del corpo. L’oste, imperterrito, riprese:
   «E quella sua strana pittura piena di colori! Fanno male alla vista solo a guardarli. Gialli, verdi, rossi, azzurri… Le tele ne sono stracolme: sembrano quasi non sopportare il loro peso. Credo ne sprechi un bel po’, il vostro amico. Cosa ne dite, monsieur? Siete pittore anche voi… Io penso che l’olandese sciupi soltanto tempo e denaro. Con quello che costa la vita, poi! Dipinge, dipinge, e mai nessuno che compri un suo quadro. Fossi in lui cercherei un lavoro più redditizio, se ha voglia di campare…»
   Lo scatto improvviso di Gauguin interruppe quel soliloquio. Come una molla si alzò dalla sedia, scagliando la bottiglia che aveva davanti contro una parete del locale. I frammenti di vetro, tintinnando, si sparsero ovunque sul pavimento.
   Dopo un sobbalzo, gli avventori rimasero fermi, allibiti, trattenendo il respiro e temendo il peggio. Con quel tipo c’era da attendersi di tutto. 
   A passi veloci Gauguin si accostò al bancone. Vi poggiò sopra le mani ringhiando come una belva inferocita e sbuffando dalle narici con veemenza.
   L’oste si ritrasse, visibilmente impaurito. Ma trascorso qualche secondo, si fece avanti di nuovo e, serrando con forza le mascelle, sostenne, senza battere ciglia, lo sguardo dell’altro.
   «Accidenti a voi!» esclamò poco dopo con voce roca. «Vi ha dato di volta il cervello, per caso? Si può sapere che cosa vi prende?»
   «Vorrei che chiudeste quella dannata boccaccia,» disse Gauguin fuori dai denti. «State riempiendo il locale di idiozie, che nessuno ha voglia di ascoltare. In più state insultando il mio amico Vincent Van Gogh, che è un grande artista. Ve lo dico io!» Tacque, respirando con affanno, poi, dopo una specie di ruggito, riprese: «Che sapete voi di uomini e pittura? Cosa conoscete oltre al vino contraffatto che servite ai vostri clienti? Avete mai provato, nella vostra vita, la disperazione più nera? Siete forse vissuto di stenti e privazioni o solo come un cane, senza affetti, senza una casa, abbandonato da tutti? Avete patito per qualche ideale o per l’arte, che dà spasimi più di qualsiasi cosa?» Batté con violenza un pugno sul piano del bancone, che risuonò sordamente. «Allora,» ringhiò, «volete rispondere o devo strapparvi con le mani le parole dalla gola?»
   «Vi prego… calmatevi,» fece l’oste con esile voce. «Non volevo insultare nessuno.»
   «Già, non volevate! E intanto vi siete permesso di offendere Van Gogh, l’uomo più buono e più generoso che conosca. Meritereste che vi chiudessi la bocca a furia di pugni. Ma in questo momento non ho tempo da perdere, né voglia di sporcarmi le mani con voi.» 
   «Ma perché vi scaldate, monsieur?» gridò l’oste sentendosi punto sul vivo. «Non avete anche voi, talvolta, offeso l’olandese? Vi ho sentito, sapete? Proprio qui, in questo locale. Eravate seduto con esattezza a quel tavolo presso la finestra,» e indicò con la mano. «Lo avete afferrato per il bavero, strattonato, minacciato perfino di morte, dopo averlo più volte schiaffeggiato. Urlavate come un ossesso e chiunque, pur non volendo ascoltare quello che dicevate, ha sentito ogni cosa, soprattutto le vostre contumelie.»
   Gauguin serrò le mascelle poi, dopo avere sbuffato dalle narici, rispose:
   «Quando si è amico di qualcuno, si ha diritto di fare e di dire quel che si vuole. Voi non siete amico di nessuno, tanto meno di monsieur Van Gogh. Non avete diritto di sparlare né di sputare sentenze su di lui. Pensate ai vostri maledetti affari, che vi premono più di qualsiasi cosa.» Strinse con forza le mascelle quindi, con grande disprezzo: «Siete soltanto un vigliacco, un individuo miserabile.»
   D’istinto l’oste alzò i pugni e contrasse con rabbia i muscoli del viso. Fu sul punto di colpire Gauguin ma, vedendolo aprire rapidamente la giacca e mostrare un lungo coltello infilato nella cintura, desistette da ogni proposito bellicoso. Con quel tipo si poteva restare feriti in modo serio, se non uccisi, soprattutto adesso che era terribilmente infuriato. 
   Stettero fermi a fissarsi per qualche momento, come fermi erano i pochi avventori nel locale, che sembravano pietrificati ai loro tavoli. Non si udiva un rumore, tranne il respiro affannoso dei due.
   A poco a poco la tensione si allentò e gli animi si placarono.
   Paul Gauguin emise un lungo sospiro poi, nervosamente, si frugò nelle tasche in cerca di denaro.
   L’oste ne seguì i gesti con attenzione e, alla fine:
   «Lasciate stare,» disse. «L’assenzio che avete bevuto è gratis. Offre la casa.»
   «Non voglio niente da voi,» rispose l’altro frugandosi ancora nelle tasche. Ma ben presto dovette rinunciare a quell’impresa e, in modo stizzoso: «Vi pagherò, statene certo. Vi pagherò fino all’ultimo centesimo. Non adesso, magari, ma vi pagherò… Paul Gauguin ha sempre saldato ogni debito.»
   Si allontanò dal bancone e tornò al suo tavolo. Si chinò, raccattò da terra una grossa cartella contenente fogli da disegno. Dalla spalliera della sedia prese un berretto di lana: se lo calcò sulla testa. A passi lenti, senza salutare nessuno, si avviò verso la porta del locale.
   «Vi pagherò, statene certo,» disse ancora all’oste mentre passava davanti al bancone. «Vi darò il denaro che vi spetta. Preferirei morire di fame e di sete, piuttosto che avere qualcosa da voi.»
   Uscì all’aria aperta. Dall’interno del locale, lo si udì sputare rumorosamente.
   «Artisti!» l’oste esclamò con disprezzo, mentre con un panno lucidava freneticamente il piano del bancone. «Artisti!» disse ancora. «Scansafatiche e morti di fame! Ecco cosa sono… Matti da legare! E uno peggiore dell’altro. Non hanno rispetto per niente e nessuno. Bisognerebbe legarli e rinchiuderli in prigione.» Fece una pausa, poi, scuotendo la testa, riprese: «Credono di conoscere tutto, di sapere qualsiasi cosa della vita, di avere sofferto tutte le sventure e le miserie, come se gli altri navigassero nell’agio.»
   Dopo qualche secondo di silenzio.
   «Ehi, Gérard,» gridò all’oste un anziano avventore seduto a un tavolo. «Perché permetti a questi tipacci di entrare qui dentro e comportarsi come se fossero i padroni? Non dovresti, lo sai? D’ora in avanti buttali fuori senza riguardi, non appena varcano l’uscio del tuo locale. Noialtri abbiamo il diritto di starcene in pace, senza che nessuno ci disturbi. Ti paghiamo profumatamente, mi pare.» Bevve un sorso di vino dal bicchiere che aveva nella mano, quindi, in tono pacato: «Ma ora non ci pensare… Portami ancora un litro di quello rosso. Ma mi raccomando: che non sia contraffatto, sporco imbroglione.»

Nessun commento:

Posta un commento