martedì 24 maggio 2016

ARECHETA di Francesco Bisesti

Parola magica, sconosciuta eppure odorosa, e tale è rimasta per lungo tempo nel mio linguaggio: sconosciuta, estranea e inassociabile al sapore e al profumo, pure a me ben noti, dell’origano sulle alici in tortiera, sulla carne alla pizzaiola o, meglio ancora, sulla pizza alla marinara.
Dolce visione onirica quella che vivo ancor oggi, più e più volte, nella quale si riaffacciano le immagini, gli odori buoni e quelli cattivi, i suoni e i rumori della mia città e del mio quartiere al suo risveglio.
Verso la metà degli anni sessanta, ma anche ben oltre fino a quando non fu poi soppiantata da un negozio moderno che a dire il vero stona ancora oggi nel contesto del vicolo, all’angolo tra via San Giovanni Maggiore Pignatelli e via Benedetto Croce - conosciuta ai più con l’appellativo di Spaccanapoli - c’era una bottega la cui grossa insegna in ferro, sul lato di Via San Giovanni Maggiore, scriveva a caratteri cubitali in bianco “Arecheta”. Lo sfondo, un tempo di colore blu, si era poi annerito nel corso dei decenni e appariva semplicemente scuro all’occhio dei passanti più distratti. L’altra insegna, come ovvio, si affacciava invece su Via Croce ma, di questa, non mi ero mai curato.
In realtà quella bottega era una via di mezzo tra un negozio e un deposito, dove quello che si percepiva di certo era che vi si vendeva il carbone, sicuramente destinato ad alimentare in massima parte i forni delle numerose pizzerie della zona ma anche, in misura minore, per finire arso in un braciere riposto sotto il tavolo del pranzo nelle abitazioni più povere a riscaldare, nelle fredde sere d’inverno, almeno i piedi e le gambe dei commensali durante la cena.
La polvere nera aveva scurito non solo le pareti interne ma perfino la pavimentazione stradale antistante ai due ingressi.
Dunque la parola Arecheta, rispetto a quello che appariva essere il principale oggetto dell’attività, ancora una volta non sembrava avesse in alcun modo attinenza con quest’ultima.
Altro articolo oggetto del commercio, ma ben più nobile, era l’olio venduto presumibilmente in lattine dopo laboriose, e piuttosto unte, operazioni di travaso che avevano contribuito nel tempo a stratificare la fuliggine facendola indelebilmente attecchire per ogni dove. Un dettaglio dei principali prodotti offerti dalla ditta era comunque esposto in una sorta di locandina in ferro, sempre su sfondo blu e con le scritte in bianco, che dava mostra di sé lateralmente a ciascuno dei due ingressi alla bottega. E, anche qui, “l’arecheta” era in primissimo piano.
Dalla strada si vedeva troneggiare al centro del locale una grossa bilancia Berkel, un tempo di colore rosso ma poi anch’essa assuefattasi alla polvere di carbone, mentre tutt’intorno regnava un caos di sacchi, di scatoloni e, solo in qualche angolo, s’intravedevano sul fondo dei piccoli scaffali che ospitavano, probabilmente, le lattine d’olio appena confezionate.
Per andare un po’ più indietro nei secoli, ma più avanti sul finire del ventesimo, si potrebbe dire che antenata di quella bottega, questa volta priva di insegna, poteva sicuramente esser quella di Gasperino carbonaro nel film di Alberto Sordi “Il Marchese del Grillo” uscito quasi vent’anni dopo.
Dopo il primo anno delle medie, trascorso presso la scuola Francesco Torraca sulla collina del Vomero, percorrevo ogni mattina quella strada per recarmi al Michelangelo Schipa a Salita Pontecorvo, più su di piazza Dante in direzione di Montesanto e poi, più in avanti, per frequentare il ginnasio del Liceo Antonio Genovesi di piazza del Gesù Nuovo la cui sezione staccata, ove fui iscritto nel biennio che appunto precedeva il liceo, aveva sede invece in via Benedetto Croce all’interno di un palazzo appena sulla destra dell’incrocio con via San Giovanni Maggiore Pignatelli.
Ebbene alla mia sinistra, prima di uscire dal mio vicolo, puntualmente ogni mattina si riproponeva il solito interrogativo sul significato di quell’insegna e di quella magica scritta: “Arecheta”.
In casa mi era proibito di parlare il dialetto napoletano e conseguentemente anche i miei genitori usavano, ma forse solo in mia presenza, rivolgersi a me sfoggiando un rigoroso italiano appena inquinato dall’inflessione e dall’inconfondibile cadenza tipica di chi, nato a Napoli, si traduce nelle esse morbide e trascinate come fossero sci, sce o in vocali liberamente aperte. Dunque di arecheta non avevo mai sentito parlare in vita mia e questa parola, che non faceva parte del mio vocabolario, rimase per un bel po’ a me del tutto sconosciuta.
Il suo profumo, lo scopersi dopo, lo conoscevo invece profondamente per quante erano le volte che, passando davanti alla pizzeria Lombardi a Santa Chiara, rallentavo volutamente la mia andatura per annusare gli odori che da questa emanavano. Don Luigi sfornava margherite e marinare fin dal primo mattino e, da un banchetto esterno al locale che custodiva ben calde le mini pizze da asporto, richiamava a voce alta l'attenzione dei passanti e, come per ossequiarli, si rivolgeva loro con titoli di ogni specie: “ingegnere”, “dottore”, “commendatore”, “cavaliere”.
Cento lire per una pizza. A me don Luigi aveva affibbiato il titolo di avvocato: me lo son portato dietro per anni, e ogni qualvolta passavo titubante, da un lato contando le monetine che avevo in tasca e dall’altro rivolto ad “assaporare" col mio olfatto gli aromi dell’origano sulla pizza, mi salutava urlando: “avvoca’ accattateve n‘a pizza” (avvocato compratevi una pizza)!  Ma finiva sempre che i miei soldi non bastavano e allora tiravo dritto.
Quello però era il profumo della spezia che conoscevo, mentre l’arecheta costituiva ormai il mio interrogativo quotidiano.
Inutile provare a chiederne il significato o la traduzione a qualche amico, mio coetaneo dodicenne, ne avrei provato vergogna e fu così che, forse, mi decisi a girare la domanda alla maggiore delle mie cugine, che fu poi mia seconda maestra nello studio dell’odioso calcolo matematico.
La sua fu una risposta quasi seccata come del tipo: “ma come che cos’è l’arecheta? è l’origano”!
Qualche anno dopo, da studente liceale, la risposta tra l’altro l’avrei anche trovata da solo quando piuttosto che girare a destra per recarmi in Via Benedetto Croce alla sezione del ginnasio dovetti invece dirigermi sul lato opposto verso piazza del Gesù. L’insegna dopo l’incrocio, da me mai osservata prima, scriveva a grossi caratteri "Origano".
Miracolo! E mentre provavo grande soddisfazione nel ricevere quella conferma, rimuginavo sulle lamentele che i miei professori dovevano certamente rivolgere a mia madre quando s’interessava del mio profitto: “E’ un giovane intelligente, ma è troppo distratto”! 
 

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