martedì 4 ottobre 2016

SALLUSTIO E BACCALA’ di Giuseppe Novellino


    
  – Rifletti… Quello, “saxa”, è un accusativo neutro plurale.  
      Era la settima lezione privata. Giuseppe sapeva che ci sarebbero stati altri quattro o cinque incontri prima della fine delle vacanze. Poi avrebbe lasciato il borgo irpino e sarebbe rientrato nella sua città natale e di residenza, su al Nord, dove lo aspettava l’esame di riparazione.
     Don Alfonso era tarchiato, con una bella testa pelata e una pancia prominente. Stava in piedi accanto al tavolino ingombro di libri. Si chinò sul testo della versione e disse ancora:    
     – Devi rileggere attentamente la frase, così: “Ad hoc mulieres puerique pro tectis aedificiorum saxa et alia quae lucus praebebat certatim mittere”… Vedi: è complemento oggetto. – Batté l’indice sulla pagina. Poi si girò verso la porta dello studiolo, attirato da qualcosa.
     Dalla cucina veniva un odorino di olio caldo, aglio e cipolla.
     – Carme’ – chiamò all’improvviso, facendo due passi verso l’uscio, - mi raccomando, non fate bruciare la cipolla. Deve essere appena indorata prima di calare il baccalà. – Si lasciò cadere su una logora poltroncina, sbuffò e si tolse gli occhiali dalla pesante montatura. Estrasse dalla tasca della tonaca un fazzolettone tutto appallottolato, alitò sulle lenti, e con quello le ripulì.
     Giuseppe guardava con un occhio il testo latino e con l’altro don Alfonso, il quale aveva la testa imperlata di sudore. Dalla finestra spalancata entravano i rumori del solito viavai nella via Augustale, che attraversava il paese in tutta la sua larghezza.
     – Allora? – fece, senza guardare l’allievo. – Rileggi anche tu, a voce altra. Così ti rimane in testa.
     Giuseppe rilesse la frase, poi ammise:  – È vero: saxa… da saxum, neutro della seconda declinazione.
     – Appunto, non devi mai affidarti alla prima impressione. E poi, un vocabolo come quello dovresti conoscerlo. – Tirò su col naso e guardò ancora verso la porta. – Eh, sì! Mi era sembrato che avesse messo troppa cipolla. Ma adesso sento anche l’aglio.
     Si alzò con uno scatto e se ne andò in cucina.
     Giuseppe lo sentì dare istruzioni alla perpetua.
     – Lo spicchio d’aglio ce lo dovete lasciare, per tutta la cottura. Deve dare il giusto sapore all’olio, mentre cuociono le fette di baccalà. Quante volte ve lo devo dire, Carme’?
     La donna borbottò qualcosa in dialetto stretto che Giuseppe fece fatica a capire.
     Dopo un momento, don Alfonso rientrò nello studiolo. Teneva gli occhiali in una mano, con il pollice e l’indice dell’altra si premeva la radice del naso. Disse: – Vai avanti. – Ma subito recitò lui stesso, perché il brano lo sapeva a memoria: – “Ita neque caveri anceps malum, neque a fortissumis infirmissumo generi resisti posse…”
     Giuseppe seguiva quelle parole sul testo. Costatò ancora una volta che il prete professore doveva conoscere profondamente quel brano di Sallustio, forse l’intera opera: “La guerra contro Giugurta”. Ma nello stesso tempo era un esperto di arte culinaria, almeno per quanto riguardava la ricetta del baccalà. Questa considerazione gli strappò un sorriso, che cercò di nascondere, tenendo il capo chino sul libro.
     – Bene – disse ancora don Alfonso, – l’ora sta per finire. È quasi mezzogiorno. Cerca di imbastire la traduzione della nuova frase e poi vattene a casa… a mangiare pure tu.
     Giuseppe si rese conto di avere lo stomaco vuoto. Il profumo che veniva dalla cucina lo stuzzicava. Pensò che il baccalà di don Alfonso sarebbe stato particolarmente gustoso e che anche il prete accarezzasse la stessa idea.
     Un capolavoro di culinaria, pari almeno alla conoscenza di Sallustio.
    
 

giovedì 22 settembre 2016

IL MARESCIALLO E IL PETTIROSSO di Paolo Secondini



Estate 1959.
Il maresciallo sedeva alla sua scrivania nel piccolo ufficio della caserma dei carabinieri. Pigiava, con due dita soltanto, i tasti di una grossa macchina per scrivere.
Faceva un gran caldo quel pomeriggio di luglio e, benché la finestra fosse spalancata e il ventilatore in funzione, l’aria, nella stanza, era afosa e irrespirabile.
Il maresciallo trasse di tasca il fazzoletto e si terse il sudore dalla fronte. Poi lo posò sul ripiano della scrivania: tra poco, sicuramente, gli sarebbe servito di nuovo.
Gli venne voglia di bere una bibita fresca o gustare un gelato al limone – come faceva ogni tanto quando non era in servizio –, ma scosse la testa e, sbuffando, riprese a scrivere a macchina. D’un tratto un cinguettio gli fece voltare la testa a sinistra.
«E tu cosa vuoi?» domandò il maresciallo guardando la piccola gabbia vicino alla finestra. Notò che il canarino sul posatoio se ne stava tranquillo, immobile, col becco chiuso, mentre il cinguettio continuava a invadere l’ufficio. «Sei per caso un ventriloquo?» disse il maresciallo e rise della sua stessa freddura.
S
postato lo sguardo al davanzale della finestra, scoprì che l’autore del cinguettio era un passero, le piume del petto di un rosso-arancione. Evitò movimenti per non spaventarlo. 

«E tu chi saresti?» domandò poco dopo in tono suadente. Ma poi, fingendo durezza nella voce: «Non starai per caso organizzando una evasione? Bada che ti arresto, e chiudo in gabbia anche te.»
Incurante dell’uomo, il pettirosso continuò a cinguettare compiendo brevi saltelli sul davanzale.      
«Sei davvero un bel tipo, sai?» disse il maresciallo il quale, muovendosi maldestramente, fece scricchiolare la sedia: di colpo l’uccello volò via.
«No, no, no!» gridò, allora, desolato. «Torna indietro, ti prego! Non volevo spaventarti.»
Si alzò e si avvicinò alla finestra; guardò fuori volgendo la testa in ogni direzione, ma il pettirosso sembrava scomparso. Emise un breve sospiro.
Più tardi, pensò, metterò delle briciole sul davanzale. Può darsi che venga a beccarle. Ma mentre tornava alla scrivania sentì nuovamente cinguettare. Si volse dapprima alla piccola gabbia – al cui interno il canarino stava ancora tranquillo, immobile, col becco chiuso –, poi verso la finestra. Vide il passero appollaiato su un ramo di un albero di fronte.
«Ah, manigoldo!» esclamò il maresciallo bonariamente. «Meriteresti davvero che io ti arrestassi. Si può sapere che vuoi?»
Quasi in risposta il cinguettio si fece più alto e melodioso: inconsueto in un pettirosso. Ammirato del canto, il maresciallo poggiò le mani sul davanzale della finestra, gli occhi fissi sul piccolo uccello. Restò in ascolto in quella posizione per qualche tempo.
«Insomma!» disse alla fine crollando le spalle. «Si può sapere che vuoi dal mio canarino? È per lui che sei qui, non è vero?»
Ora gli parve che il cinguettio, crescendo d’intensità, si facesse appassionato, addirittura implorante: un qualcosa che penetrò profondamente nell’anima del maresciallo, con una forza e una dolcezza da scuoterla e carezzarla al tempo stesso. Si sentì come vinto da un’improvvisa, travolgente emozione.
«E va bene, va bene!» esclamò annuendo. «Ho capito.» Si avvicinò alla piccola gabbia e stette, per pochi secondi, a osservare il suo canarino, ancora fermo sul posatoio. Poi sollevò lentamente la mano e aprì la porticina di metallo. «Va’!» disse. «C’è un tuo amico là fuori che ti aspetta. È venuto apposta per te.» Guardò velocemente a destra e a sinistra. «Ma mi raccomando,» aggiunse, con un sorriso sulle labbra, «non si dica in giro che ho fatto evadere un prigioniero.»
Una macchia di giallo sfrecciò, con rumore ovattato, davanti al suo viso. In quel momento il maresciallo provò un senso di felicità come mai aveva avvertito in vita sua.

 
 

 

sabato 17 settembre 2016

LE PIETRE VERDI di Peppe Murro

Da qui è fuggito ogni dio.
Quanti degli uomini hanno vinto, dietro di sé hanno lasciato le ossa bianche ed urlanti degli sconfitti: nessuna pietà ha accompagnato il silenzio di queste cime,  le rocce squadrate,  i viali tesi al cielo vicino; nessun silenzio verrà mai spezzato.
Abbiamo visto sangue e sudore, e il grido muto dei rassegnati, la gioia breve della festa e il ballo del flauto andino.
E poi l'Inca e dopo di lui gli uomini di ferro venuti dal mare, coi loro cuori di pietra e le parole di musica e vento.
Fu ancora sangue e sudore, e il vento che spazzava via il sole dalle nostre case di pietra verde;  il vento, a sorvegliare i morti con le sue carezze di dimenticanza.
Poi, lentamente, il silenzio, sceso piano, come folate di nubi dalle cime fino all'ultima valle.
 Non ci fu altro suono che la frustata delle piogge o la carezza della primavera.
Restiamo solo noi, stesi prudenti sulle pietre e sul muschio a rubare il sole coi nostri occhi verdi di ramarro, a guardare negli occhi altri occhi curiosi e attenti di ramarro.

sabato 3 settembre 2016

LE BISCE di Giuseppe Novellino

Erano molte le probabilità di incontrare una biscia. Eppure, fino a quel momento, a Giuseppe non era capitato.
Dopo un giugno capriccioso, con quell’alternanza di periodi torridi e umide rinfrescate, la vegetazione era diventata lussureggiante. Ma la maturazione dell’uva procedeva un po’ a rilento. Nonno Celso diceva che “il pittore” era pigro nel passare fra i filari a colorare gli acini.
Adesso era luglio, le giornate stabilmente calde e soleggiate.
– Non ce ne sono di bisce, qua intorno – lo rassicurava il nonno, mentre strappava le erbacce sui terrazzamenti del vigneto. Eppure Giuseppe, ossessionato dall’idea di imbattersi in una di quelle creature striscianti, voleva avere delle certezze. Le parole del nonno non lo tranquillizzavano del tutto, perché erano in contrasto con quelle di Dante, il figlio dello zio Alfonso. Dante era un ragazzo di diciassette anni, alto e un po’ magro, capelli neri che portava con un ciuffo alla moda. Stava spesso a torso nudo, indossando blue jeans aderenti e scoloriti. Si atteggiava a teddy-boy. Doveva essersi accorto delle paure di Giuseppe, e così si divertiva a stuzzicarlo. 
– Ce ne sono nel bosco, ma anche nelle vigne – diceva. E un giorno precisò: – Ne ho vista una nella vigna dello zio Elia. Era bella lunga, nera con dei riflessi verdastri. E sai cosa aveva sulla testa? Due corna. L’ho vista uscire da un buco tra i sassi del muretto.
L’immagine di quel rettile cornuto aveva impressionato il piccolo Giuseppe, che se lo sognò anche di notte. Naturalmente non aveva messo più piede nel podere dello zio Elia.
Quell’estate, Giuseppe aveva posto dei limiti ai suoi giochi. Per paura delle bisce, appunto. Lorenzo, il fratello di sette anni, non aveva quel pensiero. Saltava le siepi e i ruscelli, senza timore di incontrare o calpestare una serpe. Lui, invece, con i suoi due anni di più, era diventato consapevole di quella presenza inquietante. Sapeva che nei luoghi più incolti, ma anche nei campi, e perfino vicino alle case, ci si poteva imbattere in uno di quei rettili schifosi. Il solo pensiero gli faceva correre un brivido lungo la schiena.
Un giorno il nonno gli disse:
– Giuseppe, ho lasciato il cappello sotto il fico dello zio Elia. Vai a prendermelo.
Ma l’idea di scendere lungo la folta siepe che costeggiava il piccolo pendio erboso gli incuteva un certo timore. Perciò fece un giro più lungo, attraversando il prato sul lato opposto, dove l’erba era stata da poco falciata.
Evitava la vegetazione troppo folta, perché in essa si poteva nascondere l’insidia strisciante.Per tutta quell’estate, un giorno sì e uno no, nonno Celso portò con sé a Castione i due nipotini. Lavorava nella sua vigna, ma pure aiutava i fratelli Alfonso ed Elia. Si sentiva utile anche nel badare ai due bambini, che toglieva dall’ambiente cittadino per alleviare la figlia che doveva curare la piccola Elisabetta e Marco di tre mesi.
Giuseppe era consapevole del menage, sapeva della fatica che sopportavano i suoi genitori. Quindi ubbidiva al nonno e trascorreva allegramente le giornate in campagna. Ma se non ci fosse stata quella ossessionante paura delle bisce, il suo godimento sarebbe stato di certo maggiore.
Stava attraversando il declivio erboso (standosene però sempre lontano dalla siepe incolta), quando sentì Dante gridare:
– Giuseppe, una biscia. Dietro di te, scappa!
La reazione fu istantanea. Si mise a correre, mentre un brivido gli faceva accapponare la pelle.  Entrò in casa tutto trafelato, dove nonno Celso stava rimestando la polenta. La zia Rosina, moglie di Alfonso, sceglieva le foglie di cicoria da lavare. Lorenzo giocava, in un angolo, con due macchinine.
– Che cosa è successo? – chiese la donna.
Giuseppe si lasciò cadere su una sedia impagliata. – Una biscia… qua fuori. Mi correva dietro.
– Ma va’ – fece la zia, scartando una foglia ingiallita di cicoria. Nonno Celso scuoteva le spalle, senza lasciarsi distrarre dal suo lavoro davanti alla fiamma del camino. Gocce di sudore gli imperlavano la fronte e la testa pelata.
– Dico sul serio – ribadì Giuseppe, che ancora tremava per lo spavento.
– Non ce ne sono di bisce. – Le parole del nonno suonavano come una sentenza.
– Eppure… - cercò di controbattere Giuseppe.
– L’hai vista? – domandò la Rosina, buttando un mazzetto di fresche foglie d’insalata nello scolapasta di alluminio.
Cosa avrebbe potuto rispondere, lui? Effettivamente non l’aveva vista, per il semplice motivo che non si era voltato indietro. E, pensandoci bene, non aveva neppure udito il sinistro frusciare della vegetazione.
Giuseppe cominciava a tranquillizzarsi. L’odore della polenta quasi cotta aveva il potere di rasserenare l’animo.
Poi si udì la voce di Dante, in lontananza. – Giuseppe, vieni fuori a vedere.
Incrociò lo sguardo del nonno, che disse: - E vai a vedere!
– Vieni anche tu.
– Sto tarando la polenta, non vedi?
– Vieni anche tu, nonno, ti prego…
Dante continuava a chiamarlo. C’era una nota beffarda in quella voce.
Il nonno si lasciò convincere e seguì Giuseppe all’uscio.
Sul praticello c’era un’enorme biscia nera, lunga almeno quattro metri. Stava immobile con tutte le sue sinuosità accentuate, pronta a saettare sulla verde distesa.
Giuseppe cacciò un grido e si aggrappò a una gamba del nonno.
– Non vedi che è il tubo di gomma per bagnare l’orto?
Allora si udì la risata di Dante. Stava accovacciato su un ramo del fico. Il suo torso nudo mandava riflessi al sole.
Ma con uno schianto secco il ramo si spezzò e la risata venne interrotta.
Il ragazzo piombò in un folto cespuglio di ortiche.

lunedì 29 agosto 2016

IL NUMERO OTTO di Sandra Carresi


Otto era stato il voto ambito alle superiori; otto era il giorno della nascita di sua moglie e di suo figlio, in un mese e in un anno diversi; otto era stato il giorno in cui aveva celebrato il suo unico matrimonio e ancora otto era il suo numero civico nonché il suo preferito.
Bello, tondo con due pance, infondeva sicurezza e serenità, ma forse non questa volta.
Il suo intervento chirurgico era stato programmato proprio l’otto di maggio.
Lui, ormai avanti con gli anni, non stava bene, tuttavia doveva subire quell’intervento alla prostata, ingrossata con l’invecchiamento e da poco aggravata seriamente.
Si trovava in una cameretta d’ospedale a quattro letti e all’inizio, spaventato per l’intervento del giorno seguente, fra purghe e medicinali, non aveva fatto caso, ma quando si alzò per andare in bagno, lesse il numero sopra il lettino: 888.
Turbato, e ancora più spaventato e fragile pensò:
“Ormai non ho più dubbi, domani non supererò l’intervento e chiuderò la mia partita con la vita, il giorno 8 di uno splendido Maggio.”
Era talmente sicuro di questo che la sera prima recitò le sue preghiere e raccomandò la sua anima al Creatore, pregandolo di essere, con lui, indulgente.
Il sole entrava sfacciato in quella cameretta linda e in quel momento solo un lettino era occupato. Un uomo anziano dormiva; al braccio la flebo in vena scorreva lenta e precisa.
L’infermiera entrò con passo leggero, toccò la fronte dell’anziano e sottovoce, voltando la testa verso la porta, disse alla collega:
 “La febbre è passata, finalmente! E’ molto strano, l’intervento è andato bene, ma è subentrata una febbre alta ed insolita e il paziente ha sempre dormito.”
Fu a questo punto che l’uomo aprì gli occhi e vedendo il viso sorridente dell’infermiera, le chiese:
 “Che giorno è oggi? “
L’infermiera rispose che era il 9 di Maggio, aggiunse che l’intervento era andato bene e che ieri aveva dormito tutto il giorno e che si era svegliato solo in quel momento.
L’anziano sorrise e pensò:
 “Sono tornato alla luce, da oggi in poi, il mio giorno preferito, sarà il numero 9.”
Poi, voltando la testa, si addormentò per sempre.
Forse il numero 8 si era solo distratto, forse si era impermalito sulla preferenza dell’anziano al numero successivo, chissà….
Il mistero dei legami coi numeri, unica cosa certa nella vita, ma forse, non proprio così matematica come pensiamo che siano.

 

 

 

martedì 23 agosto 2016

NELL’UFFICIO DEL GIUDICE THAYER di Paolo Secondini

Tribunale di Dedham – Massachussetts. Ufficio del giudice Webster Thayer. 1921.
«Vostro Onore, non c’è stata una sola prova che abbia dimostrato la colpevolezza del mio assistito Bartolomeo Vanzetti,» disse l’avvocato Jeremiah McAnarney, sporgendosi alquanto sulla poltrona.
«Affermo lo stesso per Nicola Sacco, che ho difeso in sostituzione di Freddie Moore,» gli fece eco William Thompson, con un sigaro avana tra le labbra.
«La polizia,» aggiunse McAnarney, «ha trovato nelle tasche di Sacco e Vanzetti, al momento del loro arresto, due pistole che non hanno sparato neppure un colpo, e alcuni volantini denuncianti la miseria degli operai nelle grandi periferie di Boston e di New York. Non mi sembrano prove schiaccianti, queste, come invece i giurati hanno ritenuto, da giustificare una condanna a morte. Non solo, ma alcuni testimoni hanno decisamente scagionato i due imputati. Mi domando perché sono stati considerati inattendibili.»
Il pubblico ministero Frederick Katzmann, che pure fumava un sigaro cubano, fece sentire la sua voce roca.
«E in base a quali elementi la giuria popolare avrebbe pronunciato, secondo voi, il verdetto di colpevolezza? Pregiudizio politico, forse?»
Thompson si voltò a guardarlo, sbuffando una nube di fumo del suo partagàs.
«È evidente,» rispose, «che Sacco e Vanzetti sono due capri espiatori, signor Katzmann.»
«Ne siete convinto?»
«Io sono convinto, invece,» si intromise il giudice Thayer, inarcando un sopracciglio, «che la loro condanna ha fatto giustizia due volte. Infatti, oltreché per il crimine commesso, sono stati puniti, sebbene in maniera del tutto casuale, per lo spirito anarchico e rivoluzionario.»
Sedeva dietro la sua scrivania, le mani intrecciate sull’addome, spostando lo sguardo dall’uno all’altro dei due avvocati della difesa.
«Vostro Onore,» replicò Jeremiah McAnarney, «Bartolomeo Vanzetti ha capeggiato scioperi di operai miranti a ottenere salari più decenti e migliori condizioni di lavoro. Ma non è un sovversivo, perché mai, in nessuna circostanza, ha attentato alle leggi o istituzioni del nostro Paese.»
«Né lo ha fatto il mio assistito Nicola Sacco,» disse per conto suo William Thompson.
«Signori, signori!» esclamò Frederick Katzmann, alzando il tono della voce. «Dimenticate che il 15 aprile 1920, nella cittadina di South Braintree, Stato del Massachusetts, è stato commesso un duplice omicido…»
«Vittime Frederick Parmenter e Alessandro Berardelli,» si intromise il giudice Thayer, «rispettivamente cassiere e guarda giurata del Calzaturificio Slaster and Morrill, presso cui Nicola Sacco aveva lavorato come operaio per lungo tempo.»
McAnarney si alzò di scatto dalla poltrona e, rosso in viso, si avvicinò alla scrivania del giudice Thayer.
«Vostro Onore,» disse con voce vibrante, «vi ripeto che mancano prove a carico di Bartolomeo Vanzetti.»
«E anche di Nicola Sacco,» fece William Thompson.
Frederick Katzmann scrollò la testa. Aveva sulle labbra un sorrisetto ironico.
«Sono stati ritenuti responsabili e condannati alla sedia elettrica,» disse. «È del tutto inutile, signori, continuare a discutere su questo caso. Ammiro il vostro temperamento, ma non mi pare ci sia altro da aggiungere.»
«Tranne che il processo,» osservò McAnarney, tornando a sedersi in poltrona, «è stato chiaramente condizionato dalla politica del terrore di Mitchell Palmer, procuratore generale degli Stati Uniti d’America.»
Il giudice Thayer, con una espressione severa nello sguardo, batté un pugno sul piano della scrivania.
«Signor McAnarney,» disse subito dopo, rosso in viso dalla collera, «non accetto da voi insinuazioni su quanti hanno fatto il loro dovere, vale a dire poliziotti, testimoni, giurati, pubblico ministero e il sottoscritto. Non ha il diritto di dubitare dell’assoluta correttezza e obiettività del processo appena concluso.»
«Vostro Onore, non era mia intenzione mancare di rispetto né a voi né ad altri,» ribatté Jeremiah McAnarney. «Tuttavia non vi nascondo la mia amarezza per come le cose sono andate. Ho l’impressione che Sacco e Vanzetti, come poc’anzi affermava il collega della difesa, siano stati due agnelli sacrificali, la cui condanna persegue…»
«Un chiaro intento repressivo contro i nemici, o presunti tali, degli Stati Uniti d’America,» si intromise Thompson. «Dichiarare colpevoli Sacco e Vanzetti si è reso necessario per scongiurare…»
«Che cosa, signor Thompson?» chiese il giudice Thayer, sporgendosi avanti sulla scrivania e tremando visibilmente nella persona. «Scongiurare il propagarsi del comunismo nel nostro Paese? La cosiddetta “paura rossa”? È questo che intendete? Se anche fosse, io penso che sia prioritario e fondamentale il bene assoluto della nostra Nazione. Credo che la condanna di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti sia stata espressione di coraggio, di lealtà e spirito di patriottismo dei dodici membri della giuria popolare.» Sbuffò leggermente, poi: «Signor McAnarney, avete altro da aggiungere?»
«Vostro Onore, a questo punto vorrei che quanti hanno giudicato colpevoli i nostri assistiti ricordassero per sempre le parole di Bartolomeo Vanzetti. Leggo testualmente: Io non auguro a un cane, né a un serpente, né alla creatura più vile della Terra, ciò che ho sofferto per cose di cui non sono colpevole. Ma la mia convinzione è che sono perseguitato, e quindi soffro, per quello di cui sono fiero di essere: un radicale e un italiano
 

 

venerdì 12 agosto 2016

Il GRANDE DIVIETO di Peppe Murro

Abbassò lo sguardo e cercò un respiro più profondo.
In fondo quella era la sua terra, anche se non ne capiva a fondo regole e costumi: non riusciva a trovare senso al Grande Divieto, alla sua terribile brevità ed al mistero delle sue infinite punizioni.
Esso consisteva solo in due negazioni: il Gesto Interdetto e la Frase Proibita. Entrambi rappresentavano l'universo di ciò che non poteva essere fatto e detto, ogni altra cosa era consentita. E l'ologramma globale mostrava ogni momento gente felice di obbedire a quell'unico tabù.
Sentiva, in quell'angolo di scogliera, il salmastro del vento entrargli nei
polmoni assieme ad una strana e dolcissima quiete. Non voltò lo sguardo, ma si figurava con esattezza il velo d'ansia e di speranza di quel volto, la trepidazione dell'attesa, l'identico suo pulsare del sangue alle tempie.
Chissà perché erano felici i suoi simili in quel mondo di piacere e di gioia quasi obbligatori, chissà perché non sentivano mordere dentro la mancanza di quanto era stato proibito...!
Scosse la testa. E d'altronde non riusciva a capire neppure il perché del Grande Divieto, né le ragioni del primo che lo aveva imposto: sembrava non ci fosse storia, tutto era un mistero accettato tranquillamente senza alcuna domanda. Forse bastava a tutti quella felicità diffusa per legge, forse qualcuno aveva avuto i suoi stessi pensieri, ma era stato punito col silenzio, come se non ci fosse mai stato.
In un modo o nell'altro, si disse guardando le rocce, vite negate. o forse tutte le vite erano state negate.
Uno scroscio marino più forte, schizzi leggeri nell'aria...
Si volse a guardarla, vide i suoi occhi più cupi del mare. Qualcosa dentro gli si scatenò come un terremoto di dolcezza e desiderio: fu allora che fece il Gesto Interdetto, le carezzò il viso.
E disse la Frase Proibita: "ti amo".

domenica 31 luglio 2016

CENTO LIRE di Giuseppe C. Budetta

Mi chiamo Pasqualino Pagliarulo. Sono portiere dello stabile numero tre, al centro di Via Chiatamone. Il palazzo di cui mi onoro di prestare servizio da oltre la trentina di anni è molto antico. Dopo il terremoto dell’Ottanta, fu pure restaurato da cima a fondo ed ora sembra un miscuglio fuori dal tempo: opera di un architetto del Settecento e della Sovrintendenza comunale post-terremoto. Quello che mi ha preceduto qui, prima di ritirarsi in pensione, trapassando poi in aldilà, mi fece la cronistoria dello stabile che avrei ereditato in qualità di portiere. Alzando l’indice ammonitore, don Vincenzo o’ scurticato disse che avrei fatto bene ad insuperbire nell’essere stato nominato portiere dell’abitazione che nel passato ormai remoto, appartenne niente di meno che ai fratelli Filomarino: il duca Ascanio e Clemente. Il primo fu matematico e vulcanologo, il secondo inseguì la gloria come poeta e letterato. Come a dire, a te le Scienze, a me le Muse. I due fratelli furono amici della Fonseca Pimentel, di Antonio Jerocardes e d’altri patrioti protagonisti della Repubblica Partenopea, proclamata il 27 gennaio del 1799. Quasi tutti questi signori, per la precisione, fecero una brutta morte e pace all’anima loro. Vi domanderete perché voglia ricordare questi fatti, esulanti dalla reale professione di custode. Ebbene, in una stanza a pian terreno c’era fino a qualche anno fa un piccolo museo di anticaglia, appartenuta nei tempi andati ai Filomarino. Che so io, uno specchio incorniciato, un mobiletto, uno scrittoio, quadri antichi con uomini, alberelli e cavallucci, delle lettere scritte a mano impolverate, dei vestiti d’epoca merlettati e poche altre cose di poco conto come libri voluminosi e strambe statuine. A suo tempo, ebbi la duplice mansione di custode dello stabile oltre all’incarico con regolare forfetario emolumento comunale, di sorvegliante le reliquie dei Filomarino patrioti e martiri. Di tanto in tanto, arrivava bello e tosto un ispettore della Sovrintendenza a controllare se stava tutto in regola. Questo ispettore, alquanto riservato e scorbuto, guardava qua e là con le mani dietro la schiena, fiutava come un segugio l’aria polverosa dello stanzone, scriveva qualcosa su un taccuino e se ne andava con la faccia di cazzo, senza quasi salutarmi. Veramente, il comune voleva dare l’incarico ad un disoccupato della LSU, ma l’assemblea condominiale si era opposta a mio favore. Mi veniva la malinconia vera quando dal finestrone in alto, attraverso la vetrata e le inferriate contro i ladri, l’ardore del tramonto estivo si spegneva sulla quinta in alto parendo di dipingere i vecchi mobili e le tappezzerie d’inchiostro rosso: in quel mentre, la specchiera di un mobile con la cornice dorata sembrava una lastra di sangue, tipo Profondo rosso di Dario Argento. In mezzo a tanta gloriosa antichità, avevo la sincera impressione di essere come un baccalà appeso ad essiccare. Adesso, tutta quella roba è stata trasferita in un apposito museo dalle parti di Portalba ed ho di conseguenza perso la extra comunale sovvenzione forfetaria. Ma non fa niente. Quel museo di cianfrusaglia polverosa era una responsabilità coi tanti ladri d’antiquaria in giro. Mia moglie lo dice sempre ed io acconsento: “Meglio accontentarsi del poco e non rischiare.”
Mia moglie sospira e dopo un poco conclude con la riflessione:
“San Gennaro vede e provvede sulla povera gente come noi.”
AMEN.
Lo stabile è allocato quasi al centro della città. Ecco qua. Vado davvero orgoglioso d’abitare proprio qui. Solo la domenica pomeriggio la zona è movimentata dalle bande dei tifosi, diretti a Fuorigrotta. Per il resto, si tratta di un quartiere tranquillo ed aristocratico. Ci abitano professionisti d’alto borgo. Tanto di scappellamento, eseguo volentieri quando i tifosi partenopei mi passano, gridando viva il Napoli. Passano a gruppi, agitando i bandieroni, alcuni in auto altri a piedi. Passano con allegria proprio davanti alla guardiola che mi onoro di occupare, come ho detto da un trentennio e passa. Mettono la gioia addosso anche a me come la vigilia di una festa.
La domenica mattina, mi sveglio sempre con la noia addosso. Sarà per la troppa gente che rimane nel palazzo per il domenicale riposo, oppure per la vecchia ingobbita del terzo piano che va a messa troppo presto. Porta male la gobba e pure la vecchia che di domenica ti passa davanti triste e claudicante. E’ una domenicale scontrosità che scende in me, aggravata dalla vecchia con la gobba che guarda appena e passa. Fatto sta che ai saluti rispondo in malo modo. Me ne guardo dal rivelare i reconditi pensieri che mi porto chiusi in petto. Qualcuno per esempio, scendendo lesto per le scale e passandomi davanti con una specie di sorriso, fa la domenica mattina:
“Salutammo marescià.”
Rispondo con garbo e con pazienza, sollevandomi il berretto inamidato e intanto dico sottovoce:
 “Salutami sto’ cazzo.”
Un altro pimpante di domenica mi fa: “Hasta la vista.”
Rispondo col cenno muto e dico senz’essere udito:
“Hasta a soreta.”
A volte, ascolto due inquilini ragionare di politica mentre sostano sotto l’architrave del portone. Sto in ascolto, ma senza intervenire in prima persona perché non si sa mai. Giorni fa, un locatario del primo piano ragionava di politica nostrana con uno del quarto, ma della scala attigua. Dicevano più o meno queste cose: “L’onorevole democristiano Longo Vito è originario dei Quartieri spagnoli.”
Si erano rivolti con la faccia verso di me, chiedendomi:
“Sapete chi è Longo Vito? Adesso, è pure ministro.”
Di spontanea volontà, dico di non saperlo. Non si sa mai, uno dice una cosa ed alcuni lo fraintendono. Per questo in politica, faccio sempre l’indifferente. I due si erano messi a dire altre cose su questo Longo Vito, come un nuovo padreterno: “L’onorevole Longo Vito alla scorse elezioni ha avuto oltre le 150 mila preferenze. Vuoi entrare di ruolo nell’amministrazione pubblica? Rivolgiti alla segreteria di questo onorevole che fa miracoli. Vuoi un posto di ruolo all’ENEL? Vai dal segretario di questo onorevole e non ci sono problemi.”
Girandosi di nuovo verso di me, hanno chiesto:
“Don Pasquale, perché non vi rivolgete a Longo Vito, lui vi sistemerà come custode all’ENEL e guadagnerete quattro volte più di qua.”
Rispondo che ormai ho gli anni, che tra non molto sarò pensionato e che non me la sento di lasciare Via Chiatamone, dove mi ci sono affezionato.
Ne ho fatta di strada prima di capitare qui. Nacqui sessant’anni fa in Via Volpicella, alla periferia di Napoli Est. Per via di certi morti ammazzati, quel quartiere adesso è nominato il Texas. C’è anche il bar con le ante girevoli come nei film del vecchio West. Il bar indovinatelo un poco, sapete come si chiama? Si chiama Bar Texas. Per barriste, ci sono due ragazze dalle facce vogliose come vere zoccole.
Qui a Napoli una volta si mettevano i soprannomi alle persone come per esempio: Pasqualino o’ Chiavico oppure a’ Chiavica, a seconda dei punti di vista. Mo’ i soprannomi si mettono ai quartieri per intero: l’evoluzione della specie. Ho sentito per il tg3 che ieri l’altro hanno ammazzato uno proprio per la strada dove abitavo io. Dicono che c’è guerra di camorra e c’è la droga a fiumi.
Di domenica quando mia madre era ancora in vita, mi recavo in quella lontana via a farle visita. Adesso che non c’è più, non mi muovo da qui per nessuna ragione. Lì in quella via di periferia, ci sono i ricordi di ragazzo quando crescevo coi genitori ancora vivi. Mio padre faceva il tranviere e la sera alle otto e mezza tornava a casa con il fagotto del pane che in parte aveva mangiato ed in parte conservato per la cena in famiglia. Ah! La mia vita è come divisa a metà. Un poco di là, in Via Volpicella ed un poco di qua, nella nobile Via Chiatamone. Il mio passato, il mio presente.
Sarà l’età, o il mestiere privo di emozioni, ma soprattutto il pomeriggio, mi annoio assai. Non mi va più di passeggiare, dandomi mia moglie il cambio nella guardiola. Una volta me ne andavo spesso per Via Partenope sul lungo mare, assaporando la brezza marina che tanto bene fa ai bronchi. Vedevo le creste dei monti sopra Sorrento farsi nere contro il cielo rosso che si andava scurendo. Vedevo verso le periferie dove anch’io nacqui, col cono del Vesuvio sopra e sospiravo.
Adesso appesantito dal grasso, mi siedo mogio mogio sulla sedia infossata ai lati del portone e guardo apatico la gente che frettolosa passa, senza quasi darmi una guardata. Tranne gl’inquilini dello stabile che mi salutano, la gente per la via mi vede e non mi vede, e se mi vede tira avanti come se niente fosse. Anzi, non bada proprio a me, seduto in posa da prelato, stracquato sotto l’arco del portone in atavico raccoglimento. Dico: un saluto almeno col cenno della testa…Uno sguardo di compiacimento e d’incoraggiamento per la vita di merda che mi meno addosso. In agosto, quando la gente se ne sta spaparacchiata al mare e la strada davanti alla mia postazione è liscia e vuota, mi piace osservare le carte che rotolano un poco, spinte dalla brezza marina, o che sostano traballanti sul luccicante basalto. Ho la puerile pulsione di raccattarle, appallottolarle in un’unica massa; quasi quasi le porterei alla bocca o come fanno a volte gli scugnizzi di giocarci a pallone. D’estate, vanno qua e là pezzi di giornale cotti dal sole, secchi e fragili come foglie morte, o come anime in pena che nessuno vede. Alcuni di quei fogli sono così gialli che si può crederli macchiati di urina, proprio quella che stagnava anni fa dentro le chiaviche del Chiatamone. D’inverno, ci sono foglietti che prima erano bianchi, ma che incollati per terra dalla fanghiglia, pestati, sminuzzati, macchiati, finiscono col diventare grigi grumi lanosi. Altri, nuovissimi e perfino inamidati, tutti bianchi, palpitanti nelle limpide giornate d’autunno, sfiorano il suolo planandosi per l’aria, ma già la terra l’invischia dal disotto. Si torcono, si strappano dal terreno fangoso che ricopre tutto il basalto. I fogli bianchi ed anonimi prendono il volo sugli alberghi di Via Chiaia e poi si liberano del tutto dalla terra, salgono in alto come aquiloni sul mare cresposo del Chiatamone. Altre cartacce non del tutto bianche, non ce la fanno a sollevarsi e vanno ad appiattirsi in pianta stabile un po’più in là, sotto i marciapiedi. Tutto questo è bello da vedere. Talvolta vado a raccogliere tutte quelle carte stinte. Le raccolgo con la dovuta pazienza, le osservo un poco da vicino e nello spiazzo verso Calata Santa Lucia ci do fuoco.
Una volta, una signora inciampò contro il dislivello del marciapiede proprio davanti a me, buscandosi la distorsione alla caviglia che qui a Napoli (tale distorsione) si chiama storta. Mi ero alzato dalla sedia con la dovuta fretta e mi ero offerto di sollevarla per le braccia. La vecchierella si era messa a gridare per il dolore alla caviglia e poco dopo portata alla croce rossa da un passante con la sua auto. Qualcuno vedendo il marciapiede mal messo aveva gridato contro il comune che non aggiusta la viabilità:
“Bella schifezza.”
Riflettendo sulla disgrazia toccata alla signora, arrivai  a notare un particolare che m’illuminò la mente. Il particolare è questo.
A causa delle auto parcheggiate dall’altro lato della carreggiata, gli autobus di linea passano con le ruote sopra il marciapiede. Si è prodotta un’incavatura col lastrico di basalto che fa da marciapiede abbassatosi ad un estremo, sollevandosi di qualche centimetro dalla parte opposta. L’anomalia del suolo che una volta era piano e su cui i passanti poggiano le scarpe è appena visibile, per questo molti inciampano con la punta della scarpa. La dinamica è la seguente. La scarpa preme in punta contro il siliceo rilievo di appena qualche centimetro. Il malcapitato porta subito, in avanti l’altro piede che scivola sulla depressione del basalto dovuta come ho detto, al peso delle ruote dei pullman. Il malcapitato se provvisto di ottimo equilibrio, allunga le braccia e barcollando frena la caduta e si raddrizza con un colpo dei lombi. Ma se è anzianotto coi riflessi lenti, oppure ha un attimo di distrazione, allora la caduta è inevitabile: patapunfete. A volte, ondeggiando paurosamente come un pioppo nel forte vento, l’individuo non cade, ma si busca una storta fenomenale che lo obbligherà a restare a letto per parecchi giorni. Dal mio appostamento, seduto sotto l’arco del portone notavo che poca gente rovinava a terra a causa del lastrico deformato. I più accorti, si portavano raso al muro. Altri rallentavano l’andatura imprecando contro il comune che non fa i lavori pubblici. Mi consolavano le critiche alla comunale corruttela e rispondevo di conseguenza:
“Bella schifezza.”
Per incrementare il numero dei disgraziati che cadevano come pioppi sul basalto, malignamente escogitai lo stratagemma. Prima di dire di che si tratta, voglio rivelarvi come mi è arrivata l’idea. E’ stata una pura ispirazione, frutto dei miei pensieri più reconditi e profondi. Un giorno camminavo mogio, mogio lungo Via Partenope. Mi godevo a bocca aperta la giornata bella che sapeva di primavera. Di là, c’era Castel Dell’Ovo con la scogliera in mezzo al mare e di qua il flusso inquinante delle auto. Il mare scaglioso, pieno di luce mutevole e lieve. Il cielo era splendido e azzurro, di quel colore che ti riempie il cuore di gioia. Sull’ampio marciapiede a mattonelle passava gente, frettolosa o riguardosa. C’era qualche turista con la super-otto a tracolla e non mancava la vecchietta col cagnolino. Notai per terra la sagoma rotonda di una cento lire, perduta nella fretta chissà da chi. Il malandrino soldo rifletté invitante la luce del giorno. Non mi sognai proprio di raccattarlo per via dell’artrosi. Una volta con cento lire ci si comprava qualcosa. Adesso, non la volevano neanche per la mancia del caffè.    Però, la momentanea distrazione mi causò una distorsione. Scivolai su una scorza di banana che avrei notato se non avessi girato lo sguardo sul maledetto ed insignificante soldo. Caddi male, pressando col peso del corpo su un solo piede solo che si piegò, mandandomi infine a terra col deretano floscio.
“Oh poverino! Di certo un capogiro.”
Esclamò una donnina che non aveva capito niente. Ero caduto perché c’era stato in me un impulso trasgressivo, più fine della ragione. Sapevo che non era il caso d’inchinarmi a raccogliere la cento lire. Però mi ero distratto per un istante e questa fu la vera causa.
Ciò premesso, ecco cosa feci. Presi una cento lire nuova di zecca, la inumidii con l’alito e la lucidai con uno straccio di lana. Piazzai la moneta sulla carreggiata in vicinanza del marciapiede malandato. Per la precisione, la moneta distava dal bordo del marciapiede circa venti centimetri e dal dislivello del lastrico contro cui inciampavano le punte delle scarpe, circa mezzo metro. Con tale angolazione era assicurata la distorsione. Inoltre, proprio lì l’ampiezza del marciapiede era ed è provvidenzialmente ridotta dalla sporgenza dell’arcata del portone. Avevo calcolato bene le simmetrie, camminando come un vero passante e fissando quindi la cento lire a terra. Nel momento in cui si richiedeva la massima attenzione per evitare d’inciampare sul gradino e riguardarsi dalla sporgenza in strada del portone, l’occhio andava diritto verso la lucida moneta. Come a dire, in un momento d’anarchia, l’occhio non ubbidiva ai comandi della mente. Oppure, come un cagnolino distratto dalla carne appesa in una macelleria che non risponde subito ai comandi del padrone.        
Quel mattino segnalai sul taccuino due scivolate e una storta classica. Una donna con la borsa della spesa piena, zeppa di alimenti era rovinata diritta a terra, spandendo sul basalto della carreggiata mele e pomodori di San Marzano. Poco dopo, toccò ad una signorina che evitando di guardare me seduto sotto l’arcata del portone, girò a terra gli occhi e vide la monetina. Mi sembrò che il suo sguardo per un attimo s’illuminasse. Pensai soddisfatto: la trappola è scattata! La signorina in quel lasso di tempo distratta, inciampò come previsto sul dislivello e scivolò diritta a terra. Emise acuto grido disperato. Le dissi a bassa voce: TIE’!
La storta alla caviglia  - la classica storta -  toccò ad un signore che abita tuttora nei paraggi. Nell’inciampare, questo signore ben vestito genuflesse le gambe in bilico. Poi, cercando di sollevarsi, scivolò con una delle scarpe nuove sul fatidico dislivello e si accasciò di lato a terra dolorante. Mi sporsi verso il malcapitato, facendo finta d’aiutarlo. La sua faccia fu contratta dal dolore. Se ne andò imprecando e zoppicando e senza dirmi niente.
 A furia di godere per le altrui distorsioni capitate alla distratta gente, mi sentivo meglio. C’era in me una punta d’autentica soddisfazione. A letto a sera, davanti al televisore, raccontavo alla consorte le disavventure capitate alle persone davanti al mio portone. Chiese incredula mia moglie:
“Come mai scivolano tutti lì?”
“E’ per via del marciapiede, inclinato da una parte.”
“Chi lo ha inclinato?”
“Che domanda intelligente. Sono state le ruote dei pullman, costrette ad allargarsi a causa delle auto parcheggiate abusivamente sul lato opposto della carreggiata.”
Di sana pianta, mia moglie disse:
“Domani vado al municipio a protestare. Devono aggiustare il marciapiede.”
Mi salì dal basso ventre un arido cipiglio:
“Non ti permettere!”
“E perché?”                                                                                                        .
“Perché... perderemo la nostra pace. Verranno con le trivelle e le impastatrici e faranno un rumore infernale chissà per quanto tempo. Per favore, non t’impicciare.” ,
“E se ad inciampare fossimo noi?”
“Non ti preoccupare. Tu passa rasente il muro, guarda davanti a te e vai piano. Vedrai che non cadrai.”
Mia moglie ammutolì senza convinzione, girandosi di lato.
Una volta, passò una persona ben vestita, distinta e con un’alterigia da fare rabbia. Si guardava in giro con aria schifata e tracotante. Due volte passò davanti a me, seduto sotto l’arco del portone e per due volte col naso in su, evitò la scivolata. Pensai che quello era davvero un uomo di merda. Doveva essere anche molto ricco per non badare ad una misera cento lire a terra. Uno talmente ricco da schifare perfino i soldi di ogni tipo.
Non lo conoscevo, ma certe cose s’indovinano da sole. La terza volta che quell’uomo di merda mi passò davanti fu bello. Aveva un ombrello in mano perché piovigginava, una pioggerella sottile che appena si percepisce. Stavo seduto al mio posto, con la vecchia sedia che per il mio eccessivo peso si è scufanata al centro. Forse perché non guardò per aria a causa dell’ombrello aperto che gli vietava la vista in su, fatto sta che rivolse lo sguardo a terra. Osservò la fatale monetina e scattò la trappola. Calzava scarpe a punta nere e ben lucidate di cuoio vero. Sbatté sonoramente con la punta della scarpa sinistra contro lo scalino. L‘altra scarpa rimase titubante a mezz’altezza. Di rimando, il suo busto ondeggiò come trottola, scuotendo il cappotto di qua e di là. Sembrava una ballerina del Mercadante che fa la mossa. Vidi allora in rapida successione: la sua faccia disperata, gli occhi allarmati lanciare S.O.S., le braccia aperte con le dita come a ghermire l’aria, la scivolata immediata sul basalto malandato, il tonfo e il grido di dolore, Ahii!
Era finito in malo modo col labbro sullo spigolo del marciapiede sbilenco. Uscì del sangue ad un labbro che l’uomo cercò di tamponarsi col fazzoletto. S’era sporcato il cappotto ed anche la giacchetta di pura lana vergine. Mi chiesi: era vera, quella faccia contratta dal dolore, o l’altra prima della caduta, piena d’alterigia e tracotanza? Mi precipitai a soccorrerlo e dissi esterrefatto: “Mi dispiace.”
L’uomo si guardava attorno allibito ed incredulo, mentre del sangue continuava ad uscirgli dal labbro rotto. Poco dopo, pressandosi un fazzoletto sulla bocca, se ne andò via di corsa con un cenno appena di ringraziamento.
Un paio di giorni dopo, c’era stato un acquazzone e tutta Napoli si era inumidita, sotto il sole pallido, sporgente tra le nuvole. Via Chiatamone infreddolita conservava tutto il suo fango, le cartacce e le pozzanghere di traverso ai marciapiedi. Nel pomeriggio, inciampò una signorina, finendo con la testa diritta sui piedi miei. Non vidi berne la scena, perché guardavo altrove. Cadendo emise un gridolino incredulo. Gridai di conseguenza:
“Figlia!”
La mia esclamazione sembrò di uno un poco dispiaciuto per davvero. Era finita con la faccia sbiancata proprio dentro una pozzanghera. Splash. Aveva al petto una chiazza fangosa che s’allungava sul cappottino di astrakan e s’intrufolava sotto, sulla maglietta beige alla dolce vita. Feci finta di prodigarmi a rialzarla. La sollevai per un braccio. Era tutta sporca di fanghiglia, compreso il piatto delle mani. Voleva piangere come una bambina. La faccia contratta dal dolore. Cercò di mettersi in sesto e di pulirsi col fazzoletto. Si strofinava la maglietta con stizza. Mi guardò intristita e mi spiegò:
“E’ stato per via di quel soldo. Quella cento lire caduta proprio lì. L’ho vista, mi sono distratta, sono scivolata sul marciapiede sbilenco e sono caduta. Meno male che non mi sono rotta un osso.”       
Affranto, le offrii di sedersi al posto mio. Ammiccando, disse di no e riconoscente mi regalò un astuccio di caramelle. Dissi tra me e me:
“E che ci vuoi fare? sono stati quei due, tre secondi di distrazione che ti hanno fottuta. Figlia mia, un’altra volta impari a non distrarti per un soldo, sia pure per un attimo di tempo.”
Però, una volta passò una zingarella che non solo non inciampò, ma si precipitò a raccattare la monetina imperlata di brina. Scattai dal seggiolone e con il manico del bastone, le misi una tal paura addosso che non l’ho più vista passare. Con un balzo fulmineo s’era impadronita della cento lire e fuggita via. Fui costretto a mettere nel solito posto una nuova cento lire. Devo ammettere che il tranello non è valido per la gente che viene dalla destra, perché il marciapiede è inclinato in malo modo, in senso opposto. La gente che passa da sinistra è bella e fritta: devia la sporgenza del portone, guarda a terra la monetina sul davanti ed inciampa facilmente sul detto dislivello.
Certe volte, penso che mi sono incattivito. Penso che sono diventato un uomo di merda. Sarà l’età. Sarà che mi sono appesantito. Però, poi rifletto. Se la gente tralasciasse l’idea fissa che ha dei soldi, farebbe più attenzione ai propri passi. D’istinto invece, lo sguardo cade sulla insignificante monetina ed inciampano. La colpa non è mia, ma dell’atavico attaccamento all’idea del denaro.
 

mercoledì 20 luglio 2016

LA TERREMOTO di Giuseppe Novellino

Era di una pinguedine esagerata. Stava seduta per delle ore su una sedia impagliata che scompariva del tutto sotto la sua mole. Faceva l’uncinetto e si godeva l’ombra di una pianta che stendeva i rami sull’ingresso del negozietto di alimentari.
Dopo il deserto della controra, la piazza cominciava a rianimarsi. Un’arietta asciutta rendeva gradevole il clima di quella bella giornata di luglio. Era la tipica situazione atmosferica che Giuseppe godeva in quel paese dell’Alta Irpinia. Suo padre, originario del posto, vi trascorreva i due mesi di vacanza con tutta la famiglia.
Il ragazzo si avvicinò alla donna.
– Avete del riso? – domandò con voce un po’ incerta. Nonostante la bonarietà casalinga, la bottegaia gli incuteva un po’ di timore. Aveva infatti due folte sopracciglia e lineamenti spigolosi.
Lei distolse lo sguardo dal suo lavoro e squadrò il ragazzo con espressione vagamente inquisitoria.
Giuseppe provò una sensazione di insicurezza. Sapeva che il riso non era molto presente (anzi, per niente) nelle abitudini alimentari del posto. Non voleva apparire come il classico settentrionale che si attaccava ciecamente ai propri gusti culinari. Il paese, in fondo, gli piaceva, come pure la gente; si sentiva in un certo senso attirato da quel modo di vivere tanto diverso da quello che usava per il resto dell’anno. E le cose stavano così grazie alla metà di quel sangue che gli scorreva nelle vene. Ma la mamma, settentrionale pura, aveva deciso di farsi un risotto alla milanese, utilizzando una bustina di zafferano che aveva portato da casa. Sì, dopo giorni di pasta al pomodoro, mozzarelle, caciocavallo, verdure di stagione e frutta, le era venuta la voglia di quel piatto meneghino.
La grassa padrona del negozio lo fissò a lungo. Poi scosse bonariamente il capo e disse:
– Lo teniamo… Sì, lo teniamo, il riso. – Sembrava che parlasse di una sostanza rara e preziosa.
– Ne vorrei un chilo.
– Trase, ‘uagnon’, e vattelo a piglia’...
Con passo incerto Giuseppe entrò nel fresco e buio negozietto. Guardò nella merce accatastata lungo una parete. Ma non vide il riso.
– Non lì, ‘uagnunett’… dall’altro lato. – Lei dava le indicazioni senza spostarsi di un millimetro dalla sedia. Era nel frattempo tornata all’uncinetto.
Finalmente lo trovò. – Quanto costa?
– Trecentocinquanta lire.
Le si avvicinò con il sacchetto di riso, esibendo un biglietto da cinquecento.
Lei guardò il denaro come se fosse una cacca di cane. – Non le tenete trecentocinquanta...
– No.
– E vatt’a piglia’ lo riest’.
Standosene sempre seduta al suo posto, lo indirizzò al banco. E lui fece l’operazione da sé. Ficcò la banconota nel cassetto e contò le monetine che doveva intascare.
– Non quelle da dieci, mi raccomando. Le devo dare in chiesa, per l’elemosina.
Giuseppe annuì.
Tornato davanti a lei, le fece vedere il resto. – Controllate.
Ma lei non alzò gli occhi dall’uncinetto. Non per fiducia, pensò Giuseppe, ma per semplice pigrizia. Il dargli ulteriormente retta le sarebbe costata una fatica di troppo.
Uscì dal negozio con il suo pacchetto di riso.
Avviandosi di buon passo verso casa, Giuseppe sorrideva. Ecco perché quella grassona veniva chiamata la “Terremoto”.

domenica 10 luglio 2016

EMIGRANTI di Paolo Secondini

       Ai miei nonni
Ottobre 1907
«Quella cos’è, Vincenzo?»
Appoggiata col busto al parapetto della nave, la donna tendeva il braccio verso una statua che, ancora distante, si ergeva verde e maestosa, come emersa dal mare, nel porto di New York.
L’uomo guardò dapprima sua moglie poi, incuriosito, quello che lei indicava.
«Credo… credo che sia la statua della Libertà,» rispose dopo un momento d’esitazione. «Ce lo scrisse Pasquale, il nostro amico che vive in America da qualche anno… Scrisse che questo è un grande Paese, dove c’è posto per tutti, per chiunque abbia voglia di lavorare, come noi due, Filomena.» Restò in silenzio, gli occhi fissi a osservare il volto grazioso di sua moglie, sul quale spiccavano occhi castani colmi di dolcezza. «Questo è il mondo che abbiamo sognato,» riprese Vincenzo con calore, «il mondo in cui, lavorando e vivendo onestamente, costruiremo il nostro futuro.»
La donna si strinse al marito e stette a guardare la statua della Libertà alla quale la nave, seppur con lentezza, si avvicinava.
Seguirono alcuni momenti di silenzio.
«A che pensi, Filomena?» chiese d’un tratto Vincenzo cingendo col braccio le spalle della moglie.
«Ho tanta… paura,» lei balbettò debolmente. «Non so per quale motivo.»
I dubbi, dai quali era stata assalita già prima della partenza dal porto di Napoli, e che durante il viaggio sembrava avere fugato grazie alla presenza del marito, tornarono prepotentemente ad affacciarsi alla sua mente, a turbare il suo animo.
«Paura?! Paura di cosa?» le chiese Vincenzo in tono deciso. Con una lieve pressione della mano costrinse sua moglie a voltarsi, a guardarlo negli occhi. «Niente e nessuno ti faranno del male finché starai al mio fianco,» soggiunse deciso. «Ce la caveremo, esattamente come Pasquale e tant’altri che sono emigrati prima di noi e che ora hanno una casa, un lavoro e cibo tutti i giorni.»
Filomena rimase a osservare il viso un po’ scarno del marito, restandone come ogni volta affascinata. Era davvero un bell’uomo, Vincenzo: lineamenti marcati ma regolari, baffi neri e sottili, capelli folti, leggermente ondulati, fronte alta e spaziosa. Lei sentiva di amarlo immensamente.
Si strinse più forte al suo corpo e distese le labbra a un sorriso, che le parve arrivare direttamente dal cuore.
Era sicura delle parole del marito, di cui conosceva il carattere dolce e forte nello stesso tempo. Sì, al suo fianco non aveva paura, perché lui l’avrebbe protetta da ogni pericolo, da qualsiasi insidia, come sempre del resto aveva fatto. Sentì il desiderio di dirglielo espressamente.
«Vicino a te, Vincenzo, non temo niente e nessuno… Ma cosa faremo in questo Paese a noi sconosciuto?» chiese subito dopo, con lieve tremore nella voce.
«Troveremo un lavoro e una casa, sta’ tranquilla,» lui le rispose cingendo il suo busto con le braccia, «a New York o magari a Utica, dove vive Pasquale. Ci aiuterà, vedrai, se all’inizio avremo problemi o incontreremo difficoltà. Pasquale è più di un amico per noi… un fratello. Siamo andati sempre d’accordo. Mai un litigio, neanche un piccolo screzio tra noi.» Scosse sua moglie delicatamente, poi continuò: «Siamo qui per restare, Filomena. Restare per sempre.»
«Restare?» lei esclamò con stupore. «Restare per sempre in questo Paese? E nostro figlio in Italia? Lo hai forse dimenticato?»
«Certo che no! Ci raggiungerà tra qualche anno, non appena sarà cresciuto. Ne abbiamo discusso più volte, ricordi? Qui troverà tutto quello che vuole. Potrà studiare o magari cercarsi un lavoro. C’è posto per tutti, te l’ho detto. Anche per lui.»
Rannicchiata fra le braccia del marito, Filomena avvertiva il calore del suo corpo, mentre una brezza leggera le scompigliava, delicatamente, i neri capelli sulla fronte. Per un po’ ella stette in silenzio, seguendo con lo sguardo il volo di alcuni gabbiani che, con le candide ali, lambivano la superficie increspata del mare; infine, poggiata la testa al petto del marito, chiese, quasi mormorando:
«E il nostro paese, la nostra patria? Mio padre, mia madre, tua sorella… che cosa sarà di loro? Che faranno? Ci hai pensato, Vincenzo?»
«Tireranno avanti come sempre hanno fatto. Qualche aiuto lo avranno da noi. Gli spediremo un po’ di denaro ogni mese, perché provvedano anche ai bisogni di nostro figlio, che con loro è al sicuro… Ma questa è la nostra vita, il nostro sogno, cui non possiamo rinunciare. Abbiamo fatto tanti sacrifici per pagarci il viaggio. Ora siamo arrivati… Siamo in America, finalmente!»
Filomena non rispose: un nodo alla gola glielo impedì. A stento trattenne una lacrima. Circondò con le braccia la vita di Vincenzo che, a sua volta, le appoggiò una guancia sulla fronte.
In quel momento egli avrebbe voluto accarezzarla, baciarla sulle labbra, ma non poté: non erano soli.
Assieme a loro infatti, gomito a gomito, altri emigranti italiani, affacciati anch’essi al parapetto della nave, osservavano, con animo pieno di ansia, quel mondo nuovo, sconosciuto, attraente e spaventoso al tempo stesso, dove speravano di iniziare una vita diversa, migliore di quella che si lasciavano alle spalle.
Intorno si udivano risa, sospiri, un vociare confuso, il pianto di un bimbo e, su tutto, una breve e semplice parola, quasi gridata con speranza, con ardore:
«America… America… America.»
Filomena e Vincenzo si volsero ancora a guardare la statua della Libertà ormai più vicina, in modo particolare il braccio possente e teso a sorreggere una torcia, la cui fiamma di bronzo, però… non irradiava né luce né calore.