Erano molte le probabilità di incontrare
una biscia. Eppure, fino a quel momento, a Giuseppe non era capitato.
Dopo un giugno capriccioso, con
quell’alternanza di periodi torridi e umide rinfrescate, la vegetazione era
diventata lussureggiante. Ma la maturazione dell’uva procedeva un po’ a
rilento. Nonno Celso diceva che “il pittore” era pigro nel passare fra i filari
a colorare gli acini.
Adesso era luglio, le giornate stabilmente
calde e soleggiate.
– Non ce ne sono di bisce, qua intorno –
lo rassicurava il nonno, mentre strappava le erbacce sui terrazzamenti del
vigneto. Eppure Giuseppe, ossessionato dall’idea di imbattersi in una di quelle
creature striscianti, voleva avere delle certezze. Le parole del nonno non lo
tranquillizzavano del tutto, perché erano in contrasto con quelle di Dante, il
figlio dello zio Alfonso. Dante era un ragazzo di diciassette anni, alto e un
po’ magro, capelli neri che portava con un ciuffo alla moda. Stava spesso a
torso nudo, indossando blue jeans aderenti e scoloriti. Si atteggiava a
teddy-boy. Doveva essersi accorto delle paure di Giuseppe, e così si divertiva
a stuzzicarlo.
– Ce ne sono nel bosco, ma anche nelle
vigne – diceva. E un giorno precisò: – Ne ho vista una nella vigna dello zio
Elia. Era bella lunga, nera con dei riflessi verdastri. E sai cosa aveva sulla
testa? Due corna. L’ho vista uscire da un buco tra i sassi del muretto.
L’immagine di quel rettile cornuto aveva
impressionato il piccolo Giuseppe, che se lo sognò anche di notte. Naturalmente
non aveva messo più piede nel podere dello zio Elia.
Quell’estate, Giuseppe aveva posto dei
limiti ai suoi giochi. Per paura delle bisce, appunto. Lorenzo, il fratello di
sette anni, non aveva quel pensiero. Saltava le siepi e i ruscelli, senza
timore di incontrare o calpestare una serpe. Lui, invece, con i suoi due anni
di più, era diventato consapevole di quella presenza inquietante. Sapeva che
nei luoghi più incolti, ma anche nei campi, e perfino vicino alle case, ci si
poteva imbattere in uno di quei rettili schifosi. Il solo pensiero gli faceva
correre un brivido lungo la schiena.
Un giorno il nonno gli disse:
– Giuseppe, ho lasciato il cappello sotto
il fico dello zio Elia. Vai a prendermelo.
Ma l’idea di scendere lungo la folta siepe
che costeggiava il piccolo pendio erboso gli incuteva un certo timore. Perciò
fece un giro più lungo, attraversando il prato sul lato opposto, dove l’erba
era stata da poco falciata.
Evitava la vegetazione troppo folta,
perché in essa si poteva nascondere l’insidia strisciante.Per tutta quell’estate, un giorno sì e uno
no, nonno Celso portò con sé a Castione i due nipotini. Lavorava nella sua
vigna, ma pure aiutava i fratelli Alfonso ed Elia. Si sentiva utile anche nel
badare ai due bambini, che toglieva dall’ambiente cittadino per alleviare la
figlia che doveva curare la piccola Elisabetta e Marco di tre mesi.
Giuseppe era consapevole del menage,
sapeva della fatica che sopportavano i suoi genitori. Quindi ubbidiva al nonno
e trascorreva allegramente le giornate in campagna. Ma se non ci fosse stata
quella ossessionante paura delle bisce, il suo godimento sarebbe stato di certo
maggiore.
Stava attraversando il declivio erboso
(standosene però sempre lontano dalla siepe incolta), quando sentì Dante
gridare:
– Giuseppe, una biscia. Dietro di te,
scappa!
La reazione fu istantanea. Si mise a
correre, mentre un brivido gli faceva accapponare la pelle. Entrò in casa tutto trafelato, dove nonno
Celso stava rimestando la polenta. La zia Rosina, moglie di Alfonso, sceglieva
le foglie di cicoria da lavare. Lorenzo giocava, in un angolo, con due
macchinine.
– Che cosa è successo? – chiese la donna.
Giuseppe
si lasciò cadere su una sedia impagliata. – Una biscia… qua fuori. Mi correva
dietro.
– Ma va’ – fece la zia, scartando una
foglia ingiallita di cicoria. Nonno Celso scuoteva le spalle, senza lasciarsi
distrarre dal suo lavoro davanti alla fiamma del camino. Gocce di sudore gli
imperlavano la fronte e la testa pelata.
– Dico sul serio – ribadì Giuseppe, che
ancora tremava per lo spavento.
– Non ce ne sono di bisce. – Le parole
del nonno suonavano come una sentenza.
– Eppure… - cercò di controbattere
Giuseppe.
– L’hai vista? – domandò la Rosina,
buttando un mazzetto di fresche foglie d’insalata nello scolapasta di
alluminio.
Cosa avrebbe potuto rispondere, lui?
Effettivamente non l’aveva vista, per il semplice motivo che non si era voltato
indietro. E, pensandoci bene, non aveva neppure udito il sinistro frusciare
della vegetazione.
Giuseppe cominciava a tranquillizzarsi.
L’odore della polenta quasi cotta aveva il potere di rasserenare l’animo.
Poi si udì la voce di Dante, in
lontananza. – Giuseppe, vieni fuori a vedere.
Incrociò lo sguardo del nonno, che disse:
- E vai a vedere!
– Vieni anche tu.
– Sto tarando la polenta, non vedi?
– Vieni anche tu, nonno, ti prego…
Dante continuava a chiamarlo. C’era una
nota beffarda in quella voce.
Il nonno si lasciò convincere e seguì
Giuseppe all’uscio.
Sul praticello c’era un’enorme biscia
nera, lunga almeno quattro metri. Stava immobile con tutte le sue sinuosità
accentuate, pronta a saettare sulla verde distesa.
Giuseppe cacciò un grido e si aggrappò a
una gamba del nonno.
– Non vedi che è il tubo di gomma per
bagnare l’orto?
Allora si udì la risata di Dante. Stava
accovacciato su un ramo del fico. Il suo torso nudo mandava riflessi al sole.
Ma con uno schianto secco il ramo si
spezzò e la risata venne interrotta.
Il ragazzo piombò in un folto cespuglio
di ortiche.
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