domenica 31 luglio 2016

CENTO LIRE di Giuseppe C. Budetta

Mi chiamo Pasqualino Pagliarulo. Sono portiere dello stabile numero tre, al centro di Via Chiatamone. Il palazzo di cui mi onoro di prestare servizio da oltre la trentina di anni è molto antico. Dopo il terremoto dell’Ottanta, fu pure restaurato da cima a fondo ed ora sembra un miscuglio fuori dal tempo: opera di un architetto del Settecento e della Sovrintendenza comunale post-terremoto. Quello che mi ha preceduto qui, prima di ritirarsi in pensione, trapassando poi in aldilà, mi fece la cronistoria dello stabile che avrei ereditato in qualità di portiere. Alzando l’indice ammonitore, don Vincenzo o’ scurticato disse che avrei fatto bene ad insuperbire nell’essere stato nominato portiere dell’abitazione che nel passato ormai remoto, appartenne niente di meno che ai fratelli Filomarino: il duca Ascanio e Clemente. Il primo fu matematico e vulcanologo, il secondo inseguì la gloria come poeta e letterato. Come a dire, a te le Scienze, a me le Muse. I due fratelli furono amici della Fonseca Pimentel, di Antonio Jerocardes e d’altri patrioti protagonisti della Repubblica Partenopea, proclamata il 27 gennaio del 1799. Quasi tutti questi signori, per la precisione, fecero una brutta morte e pace all’anima loro. Vi domanderete perché voglia ricordare questi fatti, esulanti dalla reale professione di custode. Ebbene, in una stanza a pian terreno c’era fino a qualche anno fa un piccolo museo di anticaglia, appartenuta nei tempi andati ai Filomarino. Che so io, uno specchio incorniciato, un mobiletto, uno scrittoio, quadri antichi con uomini, alberelli e cavallucci, delle lettere scritte a mano impolverate, dei vestiti d’epoca merlettati e poche altre cose di poco conto come libri voluminosi e strambe statuine. A suo tempo, ebbi la duplice mansione di custode dello stabile oltre all’incarico con regolare forfetario emolumento comunale, di sorvegliante le reliquie dei Filomarino patrioti e martiri. Di tanto in tanto, arrivava bello e tosto un ispettore della Sovrintendenza a controllare se stava tutto in regola. Questo ispettore, alquanto riservato e scorbuto, guardava qua e là con le mani dietro la schiena, fiutava come un segugio l’aria polverosa dello stanzone, scriveva qualcosa su un taccuino e se ne andava con la faccia di cazzo, senza quasi salutarmi. Veramente, il comune voleva dare l’incarico ad un disoccupato della LSU, ma l’assemblea condominiale si era opposta a mio favore. Mi veniva la malinconia vera quando dal finestrone in alto, attraverso la vetrata e le inferriate contro i ladri, l’ardore del tramonto estivo si spegneva sulla quinta in alto parendo di dipingere i vecchi mobili e le tappezzerie d’inchiostro rosso: in quel mentre, la specchiera di un mobile con la cornice dorata sembrava una lastra di sangue, tipo Profondo rosso di Dario Argento. In mezzo a tanta gloriosa antichità, avevo la sincera impressione di essere come un baccalà appeso ad essiccare. Adesso, tutta quella roba è stata trasferita in un apposito museo dalle parti di Portalba ed ho di conseguenza perso la extra comunale sovvenzione forfetaria. Ma non fa niente. Quel museo di cianfrusaglia polverosa era una responsabilità coi tanti ladri d’antiquaria in giro. Mia moglie lo dice sempre ed io acconsento: “Meglio accontentarsi del poco e non rischiare.”
Mia moglie sospira e dopo un poco conclude con la riflessione:
“San Gennaro vede e provvede sulla povera gente come noi.”
AMEN.
Lo stabile è allocato quasi al centro della città. Ecco qua. Vado davvero orgoglioso d’abitare proprio qui. Solo la domenica pomeriggio la zona è movimentata dalle bande dei tifosi, diretti a Fuorigrotta. Per il resto, si tratta di un quartiere tranquillo ed aristocratico. Ci abitano professionisti d’alto borgo. Tanto di scappellamento, eseguo volentieri quando i tifosi partenopei mi passano, gridando viva il Napoli. Passano a gruppi, agitando i bandieroni, alcuni in auto altri a piedi. Passano con allegria proprio davanti alla guardiola che mi onoro di occupare, come ho detto da un trentennio e passa. Mettono la gioia addosso anche a me come la vigilia di una festa.
La domenica mattina, mi sveglio sempre con la noia addosso. Sarà per la troppa gente che rimane nel palazzo per il domenicale riposo, oppure per la vecchia ingobbita del terzo piano che va a messa troppo presto. Porta male la gobba e pure la vecchia che di domenica ti passa davanti triste e claudicante. E’ una domenicale scontrosità che scende in me, aggravata dalla vecchia con la gobba che guarda appena e passa. Fatto sta che ai saluti rispondo in malo modo. Me ne guardo dal rivelare i reconditi pensieri che mi porto chiusi in petto. Qualcuno per esempio, scendendo lesto per le scale e passandomi davanti con una specie di sorriso, fa la domenica mattina:
“Salutammo marescià.”
Rispondo con garbo e con pazienza, sollevandomi il berretto inamidato e intanto dico sottovoce:
 “Salutami sto’ cazzo.”
Un altro pimpante di domenica mi fa: “Hasta la vista.”
Rispondo col cenno muto e dico senz’essere udito:
“Hasta a soreta.”
A volte, ascolto due inquilini ragionare di politica mentre sostano sotto l’architrave del portone. Sto in ascolto, ma senza intervenire in prima persona perché non si sa mai. Giorni fa, un locatario del primo piano ragionava di politica nostrana con uno del quarto, ma della scala attigua. Dicevano più o meno queste cose: “L’onorevole democristiano Longo Vito è originario dei Quartieri spagnoli.”
Si erano rivolti con la faccia verso di me, chiedendomi:
“Sapete chi è Longo Vito? Adesso, è pure ministro.”
Di spontanea volontà, dico di non saperlo. Non si sa mai, uno dice una cosa ed alcuni lo fraintendono. Per questo in politica, faccio sempre l’indifferente. I due si erano messi a dire altre cose su questo Longo Vito, come un nuovo padreterno: “L’onorevole Longo Vito alla scorse elezioni ha avuto oltre le 150 mila preferenze. Vuoi entrare di ruolo nell’amministrazione pubblica? Rivolgiti alla segreteria di questo onorevole che fa miracoli. Vuoi un posto di ruolo all’ENEL? Vai dal segretario di questo onorevole e non ci sono problemi.”
Girandosi di nuovo verso di me, hanno chiesto:
“Don Pasquale, perché non vi rivolgete a Longo Vito, lui vi sistemerà come custode all’ENEL e guadagnerete quattro volte più di qua.”
Rispondo che ormai ho gli anni, che tra non molto sarò pensionato e che non me la sento di lasciare Via Chiatamone, dove mi ci sono affezionato.
Ne ho fatta di strada prima di capitare qui. Nacqui sessant’anni fa in Via Volpicella, alla periferia di Napoli Est. Per via di certi morti ammazzati, quel quartiere adesso è nominato il Texas. C’è anche il bar con le ante girevoli come nei film del vecchio West. Il bar indovinatelo un poco, sapete come si chiama? Si chiama Bar Texas. Per barriste, ci sono due ragazze dalle facce vogliose come vere zoccole.
Qui a Napoli una volta si mettevano i soprannomi alle persone come per esempio: Pasqualino o’ Chiavico oppure a’ Chiavica, a seconda dei punti di vista. Mo’ i soprannomi si mettono ai quartieri per intero: l’evoluzione della specie. Ho sentito per il tg3 che ieri l’altro hanno ammazzato uno proprio per la strada dove abitavo io. Dicono che c’è guerra di camorra e c’è la droga a fiumi.
Di domenica quando mia madre era ancora in vita, mi recavo in quella lontana via a farle visita. Adesso che non c’è più, non mi muovo da qui per nessuna ragione. Lì in quella via di periferia, ci sono i ricordi di ragazzo quando crescevo coi genitori ancora vivi. Mio padre faceva il tranviere e la sera alle otto e mezza tornava a casa con il fagotto del pane che in parte aveva mangiato ed in parte conservato per la cena in famiglia. Ah! La mia vita è come divisa a metà. Un poco di là, in Via Volpicella ed un poco di qua, nella nobile Via Chiatamone. Il mio passato, il mio presente.
Sarà l’età, o il mestiere privo di emozioni, ma soprattutto il pomeriggio, mi annoio assai. Non mi va più di passeggiare, dandomi mia moglie il cambio nella guardiola. Una volta me ne andavo spesso per Via Partenope sul lungo mare, assaporando la brezza marina che tanto bene fa ai bronchi. Vedevo le creste dei monti sopra Sorrento farsi nere contro il cielo rosso che si andava scurendo. Vedevo verso le periferie dove anch’io nacqui, col cono del Vesuvio sopra e sospiravo.
Adesso appesantito dal grasso, mi siedo mogio mogio sulla sedia infossata ai lati del portone e guardo apatico la gente che frettolosa passa, senza quasi darmi una guardata. Tranne gl’inquilini dello stabile che mi salutano, la gente per la via mi vede e non mi vede, e se mi vede tira avanti come se niente fosse. Anzi, non bada proprio a me, seduto in posa da prelato, stracquato sotto l’arco del portone in atavico raccoglimento. Dico: un saluto almeno col cenno della testa…Uno sguardo di compiacimento e d’incoraggiamento per la vita di merda che mi meno addosso. In agosto, quando la gente se ne sta spaparacchiata al mare e la strada davanti alla mia postazione è liscia e vuota, mi piace osservare le carte che rotolano un poco, spinte dalla brezza marina, o che sostano traballanti sul luccicante basalto. Ho la puerile pulsione di raccattarle, appallottolarle in un’unica massa; quasi quasi le porterei alla bocca o come fanno a volte gli scugnizzi di giocarci a pallone. D’estate, vanno qua e là pezzi di giornale cotti dal sole, secchi e fragili come foglie morte, o come anime in pena che nessuno vede. Alcuni di quei fogli sono così gialli che si può crederli macchiati di urina, proprio quella che stagnava anni fa dentro le chiaviche del Chiatamone. D’inverno, ci sono foglietti che prima erano bianchi, ma che incollati per terra dalla fanghiglia, pestati, sminuzzati, macchiati, finiscono col diventare grigi grumi lanosi. Altri, nuovissimi e perfino inamidati, tutti bianchi, palpitanti nelle limpide giornate d’autunno, sfiorano il suolo planandosi per l’aria, ma già la terra l’invischia dal disotto. Si torcono, si strappano dal terreno fangoso che ricopre tutto il basalto. I fogli bianchi ed anonimi prendono il volo sugli alberghi di Via Chiaia e poi si liberano del tutto dalla terra, salgono in alto come aquiloni sul mare cresposo del Chiatamone. Altre cartacce non del tutto bianche, non ce la fanno a sollevarsi e vanno ad appiattirsi in pianta stabile un po’più in là, sotto i marciapiedi. Tutto questo è bello da vedere. Talvolta vado a raccogliere tutte quelle carte stinte. Le raccolgo con la dovuta pazienza, le osservo un poco da vicino e nello spiazzo verso Calata Santa Lucia ci do fuoco.
Una volta, una signora inciampò contro il dislivello del marciapiede proprio davanti a me, buscandosi la distorsione alla caviglia che qui a Napoli (tale distorsione) si chiama storta. Mi ero alzato dalla sedia con la dovuta fretta e mi ero offerto di sollevarla per le braccia. La vecchierella si era messa a gridare per il dolore alla caviglia e poco dopo portata alla croce rossa da un passante con la sua auto. Qualcuno vedendo il marciapiede mal messo aveva gridato contro il comune che non aggiusta la viabilità:
“Bella schifezza.”
Riflettendo sulla disgrazia toccata alla signora, arrivai  a notare un particolare che m’illuminò la mente. Il particolare è questo.
A causa delle auto parcheggiate dall’altro lato della carreggiata, gli autobus di linea passano con le ruote sopra il marciapiede. Si è prodotta un’incavatura col lastrico di basalto che fa da marciapiede abbassatosi ad un estremo, sollevandosi di qualche centimetro dalla parte opposta. L’anomalia del suolo che una volta era piano e su cui i passanti poggiano le scarpe è appena visibile, per questo molti inciampano con la punta della scarpa. La dinamica è la seguente. La scarpa preme in punta contro il siliceo rilievo di appena qualche centimetro. Il malcapitato porta subito, in avanti l’altro piede che scivola sulla depressione del basalto dovuta come ho detto, al peso delle ruote dei pullman. Il malcapitato se provvisto di ottimo equilibrio, allunga le braccia e barcollando frena la caduta e si raddrizza con un colpo dei lombi. Ma se è anzianotto coi riflessi lenti, oppure ha un attimo di distrazione, allora la caduta è inevitabile: patapunfete. A volte, ondeggiando paurosamente come un pioppo nel forte vento, l’individuo non cade, ma si busca una storta fenomenale che lo obbligherà a restare a letto per parecchi giorni. Dal mio appostamento, seduto sotto l’arco del portone notavo che poca gente rovinava a terra a causa del lastrico deformato. I più accorti, si portavano raso al muro. Altri rallentavano l’andatura imprecando contro il comune che non fa i lavori pubblici. Mi consolavano le critiche alla comunale corruttela e rispondevo di conseguenza:
“Bella schifezza.”
Per incrementare il numero dei disgraziati che cadevano come pioppi sul basalto, malignamente escogitai lo stratagemma. Prima di dire di che si tratta, voglio rivelarvi come mi è arrivata l’idea. E’ stata una pura ispirazione, frutto dei miei pensieri più reconditi e profondi. Un giorno camminavo mogio, mogio lungo Via Partenope. Mi godevo a bocca aperta la giornata bella che sapeva di primavera. Di là, c’era Castel Dell’Ovo con la scogliera in mezzo al mare e di qua il flusso inquinante delle auto. Il mare scaglioso, pieno di luce mutevole e lieve. Il cielo era splendido e azzurro, di quel colore che ti riempie il cuore di gioia. Sull’ampio marciapiede a mattonelle passava gente, frettolosa o riguardosa. C’era qualche turista con la super-otto a tracolla e non mancava la vecchietta col cagnolino. Notai per terra la sagoma rotonda di una cento lire, perduta nella fretta chissà da chi. Il malandrino soldo rifletté invitante la luce del giorno. Non mi sognai proprio di raccattarlo per via dell’artrosi. Una volta con cento lire ci si comprava qualcosa. Adesso, non la volevano neanche per la mancia del caffè.    Però, la momentanea distrazione mi causò una distorsione. Scivolai su una scorza di banana che avrei notato se non avessi girato lo sguardo sul maledetto ed insignificante soldo. Caddi male, pressando col peso del corpo su un solo piede solo che si piegò, mandandomi infine a terra col deretano floscio.
“Oh poverino! Di certo un capogiro.”
Esclamò una donnina che non aveva capito niente. Ero caduto perché c’era stato in me un impulso trasgressivo, più fine della ragione. Sapevo che non era il caso d’inchinarmi a raccogliere la cento lire. Però mi ero distratto per un istante e questa fu la vera causa.
Ciò premesso, ecco cosa feci. Presi una cento lire nuova di zecca, la inumidii con l’alito e la lucidai con uno straccio di lana. Piazzai la moneta sulla carreggiata in vicinanza del marciapiede malandato. Per la precisione, la moneta distava dal bordo del marciapiede circa venti centimetri e dal dislivello del lastrico contro cui inciampavano le punte delle scarpe, circa mezzo metro. Con tale angolazione era assicurata la distorsione. Inoltre, proprio lì l’ampiezza del marciapiede era ed è provvidenzialmente ridotta dalla sporgenza dell’arcata del portone. Avevo calcolato bene le simmetrie, camminando come un vero passante e fissando quindi la cento lire a terra. Nel momento in cui si richiedeva la massima attenzione per evitare d’inciampare sul gradino e riguardarsi dalla sporgenza in strada del portone, l’occhio andava diritto verso la lucida moneta. Come a dire, in un momento d’anarchia, l’occhio non ubbidiva ai comandi della mente. Oppure, come un cagnolino distratto dalla carne appesa in una macelleria che non risponde subito ai comandi del padrone.        
Quel mattino segnalai sul taccuino due scivolate e una storta classica. Una donna con la borsa della spesa piena, zeppa di alimenti era rovinata diritta a terra, spandendo sul basalto della carreggiata mele e pomodori di San Marzano. Poco dopo, toccò ad una signorina che evitando di guardare me seduto sotto l’arcata del portone, girò a terra gli occhi e vide la monetina. Mi sembrò che il suo sguardo per un attimo s’illuminasse. Pensai soddisfatto: la trappola è scattata! La signorina in quel lasso di tempo distratta, inciampò come previsto sul dislivello e scivolò diritta a terra. Emise acuto grido disperato. Le dissi a bassa voce: TIE’!
La storta alla caviglia  - la classica storta -  toccò ad un signore che abita tuttora nei paraggi. Nell’inciampare, questo signore ben vestito genuflesse le gambe in bilico. Poi, cercando di sollevarsi, scivolò con una delle scarpe nuove sul fatidico dislivello e si accasciò di lato a terra dolorante. Mi sporsi verso il malcapitato, facendo finta d’aiutarlo. La sua faccia fu contratta dal dolore. Se ne andò imprecando e zoppicando e senza dirmi niente.
 A furia di godere per le altrui distorsioni capitate alla distratta gente, mi sentivo meglio. C’era in me una punta d’autentica soddisfazione. A letto a sera, davanti al televisore, raccontavo alla consorte le disavventure capitate alle persone davanti al mio portone. Chiese incredula mia moglie:
“Come mai scivolano tutti lì?”
“E’ per via del marciapiede, inclinato da una parte.”
“Chi lo ha inclinato?”
“Che domanda intelligente. Sono state le ruote dei pullman, costrette ad allargarsi a causa delle auto parcheggiate abusivamente sul lato opposto della carreggiata.”
Di sana pianta, mia moglie disse:
“Domani vado al municipio a protestare. Devono aggiustare il marciapiede.”
Mi salì dal basso ventre un arido cipiglio:
“Non ti permettere!”
“E perché?”                                                                                                        .
“Perché... perderemo la nostra pace. Verranno con le trivelle e le impastatrici e faranno un rumore infernale chissà per quanto tempo. Per favore, non t’impicciare.” ,
“E se ad inciampare fossimo noi?”
“Non ti preoccupare. Tu passa rasente il muro, guarda davanti a te e vai piano. Vedrai che non cadrai.”
Mia moglie ammutolì senza convinzione, girandosi di lato.
Una volta, passò una persona ben vestita, distinta e con un’alterigia da fare rabbia. Si guardava in giro con aria schifata e tracotante. Due volte passò davanti a me, seduto sotto l’arco del portone e per due volte col naso in su, evitò la scivolata. Pensai che quello era davvero un uomo di merda. Doveva essere anche molto ricco per non badare ad una misera cento lire a terra. Uno talmente ricco da schifare perfino i soldi di ogni tipo.
Non lo conoscevo, ma certe cose s’indovinano da sole. La terza volta che quell’uomo di merda mi passò davanti fu bello. Aveva un ombrello in mano perché piovigginava, una pioggerella sottile che appena si percepisce. Stavo seduto al mio posto, con la vecchia sedia che per il mio eccessivo peso si è scufanata al centro. Forse perché non guardò per aria a causa dell’ombrello aperto che gli vietava la vista in su, fatto sta che rivolse lo sguardo a terra. Osservò la fatale monetina e scattò la trappola. Calzava scarpe a punta nere e ben lucidate di cuoio vero. Sbatté sonoramente con la punta della scarpa sinistra contro lo scalino. L‘altra scarpa rimase titubante a mezz’altezza. Di rimando, il suo busto ondeggiò come trottola, scuotendo il cappotto di qua e di là. Sembrava una ballerina del Mercadante che fa la mossa. Vidi allora in rapida successione: la sua faccia disperata, gli occhi allarmati lanciare S.O.S., le braccia aperte con le dita come a ghermire l’aria, la scivolata immediata sul basalto malandato, il tonfo e il grido di dolore, Ahii!
Era finito in malo modo col labbro sullo spigolo del marciapiede sbilenco. Uscì del sangue ad un labbro che l’uomo cercò di tamponarsi col fazzoletto. S’era sporcato il cappotto ed anche la giacchetta di pura lana vergine. Mi chiesi: era vera, quella faccia contratta dal dolore, o l’altra prima della caduta, piena d’alterigia e tracotanza? Mi precipitai a soccorrerlo e dissi esterrefatto: “Mi dispiace.”
L’uomo si guardava attorno allibito ed incredulo, mentre del sangue continuava ad uscirgli dal labbro rotto. Poco dopo, pressandosi un fazzoletto sulla bocca, se ne andò via di corsa con un cenno appena di ringraziamento.
Un paio di giorni dopo, c’era stato un acquazzone e tutta Napoli si era inumidita, sotto il sole pallido, sporgente tra le nuvole. Via Chiatamone infreddolita conservava tutto il suo fango, le cartacce e le pozzanghere di traverso ai marciapiedi. Nel pomeriggio, inciampò una signorina, finendo con la testa diritta sui piedi miei. Non vidi berne la scena, perché guardavo altrove. Cadendo emise un gridolino incredulo. Gridai di conseguenza:
“Figlia!”
La mia esclamazione sembrò di uno un poco dispiaciuto per davvero. Era finita con la faccia sbiancata proprio dentro una pozzanghera. Splash. Aveva al petto una chiazza fangosa che s’allungava sul cappottino di astrakan e s’intrufolava sotto, sulla maglietta beige alla dolce vita. Feci finta di prodigarmi a rialzarla. La sollevai per un braccio. Era tutta sporca di fanghiglia, compreso il piatto delle mani. Voleva piangere come una bambina. La faccia contratta dal dolore. Cercò di mettersi in sesto e di pulirsi col fazzoletto. Si strofinava la maglietta con stizza. Mi guardò intristita e mi spiegò:
“E’ stato per via di quel soldo. Quella cento lire caduta proprio lì. L’ho vista, mi sono distratta, sono scivolata sul marciapiede sbilenco e sono caduta. Meno male che non mi sono rotta un osso.”       
Affranto, le offrii di sedersi al posto mio. Ammiccando, disse di no e riconoscente mi regalò un astuccio di caramelle. Dissi tra me e me:
“E che ci vuoi fare? sono stati quei due, tre secondi di distrazione che ti hanno fottuta. Figlia mia, un’altra volta impari a non distrarti per un soldo, sia pure per un attimo di tempo.”
Però, una volta passò una zingarella che non solo non inciampò, ma si precipitò a raccattare la monetina imperlata di brina. Scattai dal seggiolone e con il manico del bastone, le misi una tal paura addosso che non l’ho più vista passare. Con un balzo fulmineo s’era impadronita della cento lire e fuggita via. Fui costretto a mettere nel solito posto una nuova cento lire. Devo ammettere che il tranello non è valido per la gente che viene dalla destra, perché il marciapiede è inclinato in malo modo, in senso opposto. La gente che passa da sinistra è bella e fritta: devia la sporgenza del portone, guarda a terra la monetina sul davanti ed inciampa facilmente sul detto dislivello.
Certe volte, penso che mi sono incattivito. Penso che sono diventato un uomo di merda. Sarà l’età. Sarà che mi sono appesantito. Però, poi rifletto. Se la gente tralasciasse l’idea fissa che ha dei soldi, farebbe più attenzione ai propri passi. D’istinto invece, lo sguardo cade sulla insignificante monetina ed inciampano. La colpa non è mia, ma dell’atavico attaccamento all’idea del denaro.
 

mercoledì 20 luglio 2016

LA TERREMOTO di Giuseppe Novellino

Era di una pinguedine esagerata. Stava seduta per delle ore su una sedia impagliata che scompariva del tutto sotto la sua mole. Faceva l’uncinetto e si godeva l’ombra di una pianta che stendeva i rami sull’ingresso del negozietto di alimentari.
Dopo il deserto della controra, la piazza cominciava a rianimarsi. Un’arietta asciutta rendeva gradevole il clima di quella bella giornata di luglio. Era la tipica situazione atmosferica che Giuseppe godeva in quel paese dell’Alta Irpinia. Suo padre, originario del posto, vi trascorreva i due mesi di vacanza con tutta la famiglia.
Il ragazzo si avvicinò alla donna.
– Avete del riso? – domandò con voce un po’ incerta. Nonostante la bonarietà casalinga, la bottegaia gli incuteva un po’ di timore. Aveva infatti due folte sopracciglia e lineamenti spigolosi.
Lei distolse lo sguardo dal suo lavoro e squadrò il ragazzo con espressione vagamente inquisitoria.
Giuseppe provò una sensazione di insicurezza. Sapeva che il riso non era molto presente (anzi, per niente) nelle abitudini alimentari del posto. Non voleva apparire come il classico settentrionale che si attaccava ciecamente ai propri gusti culinari. Il paese, in fondo, gli piaceva, come pure la gente; si sentiva in un certo senso attirato da quel modo di vivere tanto diverso da quello che usava per il resto dell’anno. E le cose stavano così grazie alla metà di quel sangue che gli scorreva nelle vene. Ma la mamma, settentrionale pura, aveva deciso di farsi un risotto alla milanese, utilizzando una bustina di zafferano che aveva portato da casa. Sì, dopo giorni di pasta al pomodoro, mozzarelle, caciocavallo, verdure di stagione e frutta, le era venuta la voglia di quel piatto meneghino.
La grassa padrona del negozio lo fissò a lungo. Poi scosse bonariamente il capo e disse:
– Lo teniamo… Sì, lo teniamo, il riso. – Sembrava che parlasse di una sostanza rara e preziosa.
– Ne vorrei un chilo.
– Trase, ‘uagnon’, e vattelo a piglia’...
Con passo incerto Giuseppe entrò nel fresco e buio negozietto. Guardò nella merce accatastata lungo una parete. Ma non vide il riso.
– Non lì, ‘uagnunett’… dall’altro lato. – Lei dava le indicazioni senza spostarsi di un millimetro dalla sedia. Era nel frattempo tornata all’uncinetto.
Finalmente lo trovò. – Quanto costa?
– Trecentocinquanta lire.
Le si avvicinò con il sacchetto di riso, esibendo un biglietto da cinquecento.
Lei guardò il denaro come se fosse una cacca di cane. – Non le tenete trecentocinquanta...
– No.
– E vatt’a piglia’ lo riest’.
Standosene sempre seduta al suo posto, lo indirizzò al banco. E lui fece l’operazione da sé. Ficcò la banconota nel cassetto e contò le monetine che doveva intascare.
– Non quelle da dieci, mi raccomando. Le devo dare in chiesa, per l’elemosina.
Giuseppe annuì.
Tornato davanti a lei, le fece vedere il resto. – Controllate.
Ma lei non alzò gli occhi dall’uncinetto. Non per fiducia, pensò Giuseppe, ma per semplice pigrizia. Il dargli ulteriormente retta le sarebbe costata una fatica di troppo.
Uscì dal negozio con il suo pacchetto di riso.
Avviandosi di buon passo verso casa, Giuseppe sorrideva. Ecco perché quella grassona veniva chiamata la “Terremoto”.

domenica 10 luglio 2016

EMIGRANTI di Paolo Secondini

       Ai miei nonni
Ottobre 1907
«Quella cos’è, Vincenzo?»
Appoggiata col busto al parapetto della nave, la donna tendeva il braccio verso una statua che, ancora distante, si ergeva verde e maestosa, come emersa dal mare, nel porto di New York.
L’uomo guardò dapprima sua moglie poi, incuriosito, quello che lei indicava.
«Credo… credo che sia la statua della Libertà,» rispose dopo un momento d’esitazione. «Ce lo scrisse Pasquale, il nostro amico che vive in America da qualche anno… Scrisse che questo è un grande Paese, dove c’è posto per tutti, per chiunque abbia voglia di lavorare, come noi due, Filomena.» Restò in silenzio, gli occhi fissi a osservare il volto grazioso di sua moglie, sul quale spiccavano occhi castani colmi di dolcezza. «Questo è il mondo che abbiamo sognato,» riprese Vincenzo con calore, «il mondo in cui, lavorando e vivendo onestamente, costruiremo il nostro futuro.»
La donna si strinse al marito e stette a guardare la statua della Libertà alla quale la nave, seppur con lentezza, si avvicinava.
Seguirono alcuni momenti di silenzio.
«A che pensi, Filomena?» chiese d’un tratto Vincenzo cingendo col braccio le spalle della moglie.
«Ho tanta… paura,» lei balbettò debolmente. «Non so per quale motivo.»
I dubbi, dai quali era stata assalita già prima della partenza dal porto di Napoli, e che durante il viaggio sembrava avere fugato grazie alla presenza del marito, tornarono prepotentemente ad affacciarsi alla sua mente, a turbare il suo animo.
«Paura?! Paura di cosa?» le chiese Vincenzo in tono deciso. Con una lieve pressione della mano costrinse sua moglie a voltarsi, a guardarlo negli occhi. «Niente e nessuno ti faranno del male finché starai al mio fianco,» soggiunse deciso. «Ce la caveremo, esattamente come Pasquale e tant’altri che sono emigrati prima di noi e che ora hanno una casa, un lavoro e cibo tutti i giorni.»
Filomena rimase a osservare il viso un po’ scarno del marito, restandone come ogni volta affascinata. Era davvero un bell’uomo, Vincenzo: lineamenti marcati ma regolari, baffi neri e sottili, capelli folti, leggermente ondulati, fronte alta e spaziosa. Lei sentiva di amarlo immensamente.
Si strinse più forte al suo corpo e distese le labbra a un sorriso, che le parve arrivare direttamente dal cuore.
Era sicura delle parole del marito, di cui conosceva il carattere dolce e forte nello stesso tempo. Sì, al suo fianco non aveva paura, perché lui l’avrebbe protetta da ogni pericolo, da qualsiasi insidia, come sempre del resto aveva fatto. Sentì il desiderio di dirglielo espressamente.
«Vicino a te, Vincenzo, non temo niente e nessuno… Ma cosa faremo in questo Paese a noi sconosciuto?» chiese subito dopo, con lieve tremore nella voce.
«Troveremo un lavoro e una casa, sta’ tranquilla,» lui le rispose cingendo il suo busto con le braccia, «a New York o magari a Utica, dove vive Pasquale. Ci aiuterà, vedrai, se all’inizio avremo problemi o incontreremo difficoltà. Pasquale è più di un amico per noi… un fratello. Siamo andati sempre d’accordo. Mai un litigio, neanche un piccolo screzio tra noi.» Scosse sua moglie delicatamente, poi continuò: «Siamo qui per restare, Filomena. Restare per sempre.»
«Restare?» lei esclamò con stupore. «Restare per sempre in questo Paese? E nostro figlio in Italia? Lo hai forse dimenticato?»
«Certo che no! Ci raggiungerà tra qualche anno, non appena sarà cresciuto. Ne abbiamo discusso più volte, ricordi? Qui troverà tutto quello che vuole. Potrà studiare o magari cercarsi un lavoro. C’è posto per tutti, te l’ho detto. Anche per lui.»
Rannicchiata fra le braccia del marito, Filomena avvertiva il calore del suo corpo, mentre una brezza leggera le scompigliava, delicatamente, i neri capelli sulla fronte. Per un po’ ella stette in silenzio, seguendo con lo sguardo il volo di alcuni gabbiani che, con le candide ali, lambivano la superficie increspata del mare; infine, poggiata la testa al petto del marito, chiese, quasi mormorando:
«E il nostro paese, la nostra patria? Mio padre, mia madre, tua sorella… che cosa sarà di loro? Che faranno? Ci hai pensato, Vincenzo?»
«Tireranno avanti come sempre hanno fatto. Qualche aiuto lo avranno da noi. Gli spediremo un po’ di denaro ogni mese, perché provvedano anche ai bisogni di nostro figlio, che con loro è al sicuro… Ma questa è la nostra vita, il nostro sogno, cui non possiamo rinunciare. Abbiamo fatto tanti sacrifici per pagarci il viaggio. Ora siamo arrivati… Siamo in America, finalmente!»
Filomena non rispose: un nodo alla gola glielo impedì. A stento trattenne una lacrima. Circondò con le braccia la vita di Vincenzo che, a sua volta, le appoggiò una guancia sulla fronte.
In quel momento egli avrebbe voluto accarezzarla, baciarla sulle labbra, ma non poté: non erano soli.
Assieme a loro infatti, gomito a gomito, altri emigranti italiani, affacciati anch’essi al parapetto della nave, osservavano, con animo pieno di ansia, quel mondo nuovo, sconosciuto, attraente e spaventoso al tempo stesso, dove speravano di iniziare una vita diversa, migliore di quella che si lasciavano alle spalle.
Intorno si udivano risa, sospiri, un vociare confuso, il pianto di un bimbo e, su tutto, una breve e semplice parola, quasi gridata con speranza, con ardore:
«America… America… America.»
Filomena e Vincenzo si volsero ancora a guardare la statua della Libertà ormai più vicina, in modo particolare il braccio possente e teso a sorreggere una torcia, la cui fiamma di bronzo, però… non irradiava né luce né calore.

 

 

giovedì 7 luglio 2016

L’ISOLA di Peppe Murro

Sì, contava solo ciò che sentiva, nient’altro era importante, né le ferite né l’amarezza che lo carezzava come un’amante  mai sazia.
Se tutto quello era accaduto, era perché qualcuno non aveva avuto alcun interesse ad evitarlo, anzi, forse aveva voluto che accadesse.
Non c’era stato bisogno di altre storie, era bastato solo che si facesse crescere bene il tarlo di dentro che divora ogni soddisfazione, che rinsecchisce ogni amore, che urla il suo spasimo di libertà e di addii.
Ed ora stava lì, ai bordi estremi dell’isola, dove c’erano solo scogliere…nessuna spiaggia, nessuna dolcezza. Né tramonti  bruciati per un finale da cartolina.
Solo lui, il suo silenzio, la sua ormai quieta desolazione.
A volte si sorprendeva dei suoi pensieri, a volte lo assalivano dolori incessanti, inquieti fra la testa e lo stomaco – è il cuore, si diceva, che si rigurgita addosso quanto non riesce ad assolvere o a dimenticare; è il mio cuore, non ancora stanco di quel volto, di quel sorriso…
Ma poi ricordava quel viso storpiato dal livore, crudo e insensibile come la lontananza delle sue parole. Ricordava, e non avrebbe voluto.
Non c’era altro da fare che tentare un respiro più forte, e dirsi con calma che tutto era già accaduto, e che quanto sentiva ancora apparteneva solo alla sua vita.
Pianamente, con tentata distanza, cercando di chiudere ogni porta, sopportando l’ora… 

 

 

 

 
                                                                                                                 

domenica 3 luglio 2016

AVVENTURA AUTOMOBILISTICA DI UN PRECARIO DELLA SCUOLA di Tommaso Di Brango

«Tra-duecento-metri-svoltare-a destra». E così, nel rispetto di quel curioso patto che si stabilisce tra automobilista e navigatore satellitare, dopo duecento metri svoltai a destra.
Credo sia utile specificare la motivazione di questa mia scelta perché, in effetti, seguire le indicazioni fornitemi dal Tom Tom in quel momento era più un tertullianeo atto di fede – un «credo quia absurdum», insomma – che una decisione ponderata. La strada in cui svoltai, infatti, era di circa dieci centimetri più larga della Ford su cui viaggiavo, aveva una colata di cemento per asfalto ed era ripidamente in salita. Pensare che grazie ad essa sarei arrivato per tempo alla scuola media di Anagni, dove ero stato convocato per una supplenza, richiedeva un coraggio che forse altri non avrebbero avuto.
Ma comunque imboccai quella strada, e mentre contavo i litri di carburante che l’alternanza prima-seconda stava facendo volare via mi trovai di fronte, alto e solenne, un cancello in acciaio. Guardai l’orologio: avevo altri tre quarti d’ora per raggiungere la scuola. Poi, con gli stessi occhi che doveva avere Giobbe infuriato con Dio per le mille disgrazie piovutegli addosso malgrado la sua buona condotta, guardai al Tom Tom, il quale però rimase imperturbabile.
«Proseguire-peraltri-trecento-metri-e-poi-svoltare-adestra» fu tutto quello che mi seppe dire. Al che pensai di affidarmi alla Ford e sfruttare i dieci centimetri di spazio che la strada metteva a mia disposizione per fare manovra e tornare indietro: ma non avevo cambiato le gomme, e quelle che c’erano slittavano. Non era colpa loro: se non cambi pneumatici quelli che hai si fanno lisci.
Allora, come tutti coloro che si sentono vaganti per mare senza punto di riferimento alcuno, pensai di scendere dalla macchina, suonare al campanello di qualche casa nelle vicinanze e chiedere aiuto (inutile cercare di capire in cosa dovesse consistere quest’aiuto: in quel momento non c’era da badare ai dettagli). Ma, mentre con la mano sinistra avevo acchiappato la maniglia della portiera, mi accadde di individuare, nello specchietto retrovisore, una sagoma che, sì, le proporzioni di un essere umano adulto le aveva, ma in aggiunta si ritrovava con la coda, una folta peluria e le orecchie. Insomma: era un cane che guardava fisso, con l’aria di chi ti ha sistemato in un bel cul-de-sac, la mia automobile. Pensai a Dante, alla selva oscura e alla lupa: ma le ruote continuavano a slittare.
Senonché d’un tratto, come mosse a compassione per il sottoscritto, le ruote cominciarono a far presa e la Ford iniziò a muoversi. Non era la soluzione, certo: ma era un problema in meno. Passai i successivi dieci minuti ad inveire con insolenza contro i produttori di Tom Tom, a giurare a me stesso che mai più avrei adoperato quegli arnesi ed a sfruttare i dieci centimetri di spazio che quella strada metteva a disposizione alla Ford per le manovre.
Persi tre chili, ma riuscii a raggiungere Anagni in tempo. Dopo aver appurato che chi mi precedeva in graduatoria aveva intenzione di accettare l’incarico tornai alla macchina, e mi sentii dire: «Dopo-duecento-metri-svoltare-adestra».
 

venerdì 1 luglio 2016

FEBBRAIO di Teresa Regna

Febbraio è un mese interlocutorio, a metà strada tra il freddo dell’inverno e l’imminenza della primavera. Perciò è ammantato di possibilità, prima ancora che i rami degli alberi siano ammantati di nuove foglie e boccioli appena nati. Ecco perché ho scelto questo mese per fare una scelta che cambierà la mia vita. O meglio, la vita ha scelto per me e io mi sono limitata ad assecondare la sua infinita saggezza.
Ho conosciuto Mario durante un periodo buio, in cui vedevo tutto nero e avevo assoluto bisogno di una spalla su cui piangere. Lui me l’ha offerta, e io, a poco a poco, mi ci sono adagiata, affezionandomi al suo aspetto da orso bonario e ai suoi modi così impacciati da sembrare fuori posto in qualsiasi luogo e situazione.
Mi ha invitato a uscire con lui, e non ho trovato scuse abbastanza valide per rifiutare. Lavoravamo nello stesso ufficio, avevamo entrambi parecchio tempo libero, e il mio appartamento non è abbastanza grande da giustificare un riordino prolungato fino a sera inoltrata.
Inoltre, i miei vivono in un paesino di campagna piuttosto lontano, e vado a trovarli ogni due settimane circa. Per essere precisi, andavo a trovarli: da qualche tempo non sono più la benvenuta in una famiglia per cui il senso dell’onore è più importante dell’amore tra i suoi membri.
Antico il paese, antica la mentalità dei miei genitori, ripetevo a Mario, che mi ascoltava paziente, assentendo di tanto in tanto. Assentiva sempre, per farmi piacere, qualunque cosa dicessi. Ed è per farmi piacere che mi ha fatto la proposta, ne sono sicura.
Uscivamo insieme, quasi tutte le sere, da circa un mese quando ci siamo ritrovati nello stesso letto, a fare del sesso come se fosse la cosa più naturale del mondo. Sesso, non amore: nessuno dei due ama l’altro. Ci vogliamo bene, stiamo bene insieme, ma la scintilla della passione non è mai scoccata, fra di noi.
Anche facendo sesso ordinario e senza amore, però, c’è il rischio di rimanere incinta. Ed è successo a me, nonostante le precauzioni che ho imposto a Mario. In un primo momento non sapevo se esserne felice o preoccupata, e allora ho interpellato i miei.
Ho commesso un errore: secondo loro, un figlio al di fuori del matrimonio è ancora un marchio di infamia. Al giorno d’oggi, quando i figli si commissionano come se fossero elettrodomestici, e manca poco che si possa decidere il colore degli occhi e dei capelli. Mi hanno chiesto chi fosse il padre, e se fosse disposto a sposarmi.
A quel punto ho commesso il secondo errore: ne ho parlato a Mario. E lui mi ha fatto la proposta. Riteneva che, in fondo, fosse colpa sua se mi trovavo in una situazione non proprio invidiabile. Non navigo nell’oro, ero in rotta con i miei, ed esisteva la concreta possibilità che in ufficio, una volta che avessero scoperto la mia condizione, sarei stata licenziata.
Ed è accaduto, a dicembre. Il mio contratto a tempo determinato è improvvisamente arrivato al capolinea. Inutile appellarsi ai sindacati, al buonsenso o al buon cuore. E Mario, da brava persona qual è, mi ha fatto la proposta per la seconda volta. Avremmo fatto in modo che un solo stipendio ci bastasse finché non avrei trovato un altro lavoro, affidando il nostro bambino a una baby sitter o a un asilo nido.
Devo ammettere che la proposta è allettante, ma siamo a febbraio e questo mi ha fatto riflettere. Non è abbastanza, per me, accontentarmi di una vita scialba insieme a un uomo che non amo e che non mi ama. Anche il senso del dovere ha i suoi limiti, come la lealtà verso la famiglia d’origine.
Ho preso la mia decisione: formerò una famiglia insieme al mio bambino. Accetterò l’aiuto economico di Mario fino a quando non troverò un altro lavoro, ma non gli imporrò la mia presenza nella sua vita come se si trattasse di una cambiale da saldare.
Ho il diritto di cercare la mia anima gemella, di non accontentarmi di formare una coppia raffazzonata perché qualcosa è andato storto, in una notte di sesso senza amore.
La vita ha scelto di regalarmi un figlio non cercato, e dopo aver metabolizzato la cosa, io ho scelto di non sottrarmi ai doveri che sento di avere nei miei confronti. Non ho mai conosciuto l’amore, quello che fa battere il cuore a mille e toglie il respiro, e se sposassi il padre di mio figlio mi precluderei questa possibilità. Per sempre, perché sono un tipo fedele.
Preferisco non avere certezze economiche e sociali pur di avere una possibilità, una sola, che l’uomo dei miei sogni entri a far parte della mia vita. E di quella di mio figlio.
Ho deciso, ormai. Mi sento come un albero in febbraio, con poche foglie appena spuntate e in attesa del bocciolo che scaturirà dal mio ventre, ma non tornerò indietro.
Una speranza, per me, vale più di mille certezze.