venerdì 27 maggio 2016

L’IRRUENTE GAUGUIN di Paolo Secondini

  

   Arles, 1888.  
   L’oste era un uomo sulla sessantina, basso, tarchiato, dalle sopracciglia cespugliose, dalla testa calva e rotonda come una palla da biliardo. Se ne stava con aria imbronciata dietro il bancone di zinco a osservare i pochi avventori che, seduti ai tavoli, bevevano vino o liquori. In particolare egli scrutava un tipo robusto dai capelli castani, dal naso grosso e aquilino, con davanti una bottiglia di assenzio quasi vuota.
   L’oste era in ansia. Ripensava all’ultima volta in cui quel tipo, il pittore Paul Gauguin, ubriaco fradicio, aveva buttato all’aria, come una furia scatenata, gran parte del locale. Soltanto in parecchi e con molta fatica si era riusciti a bloccarlo, a renderlo inoffensivo prima che procurasse altri danni.
   Ma ora, a osservarlo con attenzione, non pareva che fosse ubriaco né tanto meno agitato; sembrava piuttosto immerso in pensieri i quali, a giudicare dall’espressione crucciata del viso, non dovevano essere lieti.
   Dalla strada antistante al locale giunse d’un tratto un rumore di passi, in quel freddo ma chiaro mattino invernale. L’oste volse rapidamente la testa a sinistra, verso l’ingresso del proprio locale, e vide per qualche momento la scarna figura di un uomo che ben conosceva. Si trattava dell’olandese – come tutti chiamavano ad Arles Vincent Van Gogh –, la cui barba e i capelli rossicci erano inconfondibili, come pure i suoi abiti sporchi e sdruciti: sempre gli stessi, ogni giorno della settimana.
   L’oste lo vide passare curvo in avanti, con in mano una valigetta sporca di colori, sotto il braccio una tela e in testa un cappello marrone a larghe tese. Si girò a guardare Gauguin.
   «Monsieur?» chiamò con voce squillante. «Proprio adesso è passato Van Gogh, il vostro carissimo amico. Portava con sé l’occorrente per dipingere.» Fece una pausa, attendendo una risposta che non venne. Poi, dopo essersi un poco schiarito la gola: «Non lo raggiungete, monsieur?»
   I gomiti sulle ginocchia e la testa tra le mani, Gauguin rimase in silenzio, le mascelle leggermente serrate.
   «Ma che cosa gli prende talvolta al vostro amico?» l’oste soggiunse. «Ha un carattere molto irascibile. Litiga spesso con tutti qui dentro, come se tutti gli dessero fastidio. Eppure nessuno parla con lui, né gli rivolge il saluto… Forse è proprio per questo che monta subito in bestia. È un tipo davvero bizzarro, lunatico. Ho l’impressione che Van Gogh non sia una persona normale o, comunque, molto equilibrata… Badate, monsieur, non è mia intenzione di offenderlo né, tanto meno, mancargli di rispetto.»
   Gauguin continuò a non rispondere, né a muovere un muscolo del corpo. L’oste, imperterrito, riprese:
   «E quella sua strana pittura piena di colori! Fanno male alla vista solo a guardarli. Gialli, verdi, rossi, azzurri… Le tele ne sono stracolme: sembrano quasi non sopportare il loro peso. Credo ne sprechi un bel po’, il vostro amico. Cosa ne dite, monsieur? Siete pittore anche voi… Io penso che l’olandese sciupi soltanto tempo e denaro. Con quello che costa la vita, poi! Dipinge, dipinge, e mai nessuno che compri un suo quadro. Fossi in lui cercherei un lavoro più redditizio, se ha voglia di campare…»
   Lo scatto improvviso di Gauguin interruppe quel soliloquio. Come una molla si alzò dalla sedia, scagliando la bottiglia che aveva davanti contro una parete del locale. I frammenti di vetro, tintinnando, si sparsero ovunque sul pavimento.
   Dopo un sobbalzo, gli avventori rimasero fermi, allibiti, trattenendo il respiro e temendo il peggio. Con quel tipo c’era da attendersi di tutto. 
   A passi veloci Gauguin si accostò al bancone. Vi poggiò sopra le mani ringhiando come una belva inferocita e sbuffando dalle narici con veemenza.
   L’oste si ritrasse, visibilmente impaurito. Ma trascorso qualche secondo, si fece avanti di nuovo e, serrando con forza le mascelle, sostenne, senza battere ciglia, lo sguardo dell’altro.
   «Accidenti a voi!» esclamò poco dopo con voce roca. «Vi ha dato di volta il cervello, per caso? Si può sapere che cosa vi prende?»
   «Vorrei che chiudeste quella dannata boccaccia,» disse Gauguin fuori dai denti. «State riempiendo il locale di idiozie, che nessuno ha voglia di ascoltare. In più state insultando il mio amico Vincent Van Gogh, che è un grande artista. Ve lo dico io!» Tacque, respirando con affanno, poi, dopo una specie di ruggito, riprese: «Che sapete voi di uomini e pittura? Cosa conoscete oltre al vino contraffatto che servite ai vostri clienti? Avete mai provato, nella vostra vita, la disperazione più nera? Siete forse vissuto di stenti e privazioni o solo come un cane, senza affetti, senza una casa, abbandonato da tutti? Avete patito per qualche ideale o per l’arte, che dà spasimi più di qualsiasi cosa?» Batté con violenza un pugno sul piano del bancone, che risuonò sordamente. «Allora,» ringhiò, «volete rispondere o devo strapparvi con le mani le parole dalla gola?»
   «Vi prego… calmatevi,» fece l’oste con esile voce. «Non volevo insultare nessuno.»
   «Già, non volevate! E intanto vi siete permesso di offendere Van Gogh, l’uomo più buono e più generoso che conosca. Meritereste che vi chiudessi la bocca a furia di pugni. Ma in questo momento non ho tempo da perdere, né voglia di sporcarmi le mani con voi.» 
   «Ma perché vi scaldate, monsieur?» gridò l’oste sentendosi punto sul vivo. «Non avete anche voi, talvolta, offeso l’olandese? Vi ho sentito, sapete? Proprio qui, in questo locale. Eravate seduto con esattezza a quel tavolo presso la finestra,» e indicò con la mano. «Lo avete afferrato per il bavero, strattonato, minacciato perfino di morte, dopo averlo più volte schiaffeggiato. Urlavate come un ossesso e chiunque, pur non volendo ascoltare quello che dicevate, ha sentito ogni cosa, soprattutto le vostre contumelie.»
   Gauguin serrò le mascelle poi, dopo avere sbuffato dalle narici, rispose:
   «Quando si è amico di qualcuno, si ha diritto di fare e di dire quel che si vuole. Voi non siete amico di nessuno, tanto meno di monsieur Van Gogh. Non avete diritto di sparlare né di sputare sentenze su di lui. Pensate ai vostri maledetti affari, che vi premono più di qualsiasi cosa.» Strinse con forza le mascelle quindi, con grande disprezzo: «Siete soltanto un vigliacco, un individuo miserabile.»
   D’istinto l’oste alzò i pugni e contrasse con rabbia i muscoli del viso. Fu sul punto di colpire Gauguin ma, vedendolo aprire rapidamente la giacca e mostrare un lungo coltello infilato nella cintura, desistette da ogni proposito bellicoso. Con quel tipo si poteva restare feriti in modo serio, se non uccisi, soprattutto adesso che era terribilmente infuriato. 
   Stettero fermi a fissarsi per qualche momento, come fermi erano i pochi avventori nel locale, che sembravano pietrificati ai loro tavoli. Non si udiva un rumore, tranne il respiro affannoso dei due.
   A poco a poco la tensione si allentò e gli animi si placarono.
   Paul Gauguin emise un lungo sospiro poi, nervosamente, si frugò nelle tasche in cerca di denaro.
   L’oste ne seguì i gesti con attenzione e, alla fine:
   «Lasciate stare,» disse. «L’assenzio che avete bevuto è gratis. Offre la casa.»
   «Non voglio niente da voi,» rispose l’altro frugandosi ancora nelle tasche. Ma ben presto dovette rinunciare a quell’impresa e, in modo stizzoso: «Vi pagherò, statene certo. Vi pagherò fino all’ultimo centesimo. Non adesso, magari, ma vi pagherò… Paul Gauguin ha sempre saldato ogni debito.»
   Si allontanò dal bancone e tornò al suo tavolo. Si chinò, raccattò da terra una grossa cartella contenente fogli da disegno. Dalla spalliera della sedia prese un berretto di lana: se lo calcò sulla testa. A passi lenti, senza salutare nessuno, si avviò verso la porta del locale.
   «Vi pagherò, statene certo,» disse ancora all’oste mentre passava davanti al bancone. «Vi darò il denaro che vi spetta. Preferirei morire di fame e di sete, piuttosto che avere qualcosa da voi.»
   Uscì all’aria aperta. Dall’interno del locale, lo si udì sputare rumorosamente.
   «Artisti!» l’oste esclamò con disprezzo, mentre con un panno lucidava freneticamente il piano del bancone. «Artisti!» disse ancora. «Scansafatiche e morti di fame! Ecco cosa sono… Matti da legare! E uno peggiore dell’altro. Non hanno rispetto per niente e nessuno. Bisognerebbe legarli e rinchiuderli in prigione.» Fece una pausa, poi, scuotendo la testa, riprese: «Credono di conoscere tutto, di sapere qualsiasi cosa della vita, di avere sofferto tutte le sventure e le miserie, come se gli altri navigassero nell’agio.»
   Dopo qualche secondo di silenzio.
   «Ehi, Gérard,» gridò all’oste un anziano avventore seduto a un tavolo. «Perché permetti a questi tipacci di entrare qui dentro e comportarsi come se fossero i padroni? Non dovresti, lo sai? D’ora in avanti buttali fuori senza riguardi, non appena varcano l’uscio del tuo locale. Noialtri abbiamo il diritto di starcene in pace, senza che nessuno ci disturbi. Ti paghiamo profumatamente, mi pare.» Bevve un sorso di vino dal bicchiere che aveva nella mano, quindi, in tono pacato: «Ma ora non ci pensare… Portami ancora un litro di quello rosso. Ma mi raccomando: che non sia contraffatto, sporco imbroglione.»

martedì 24 maggio 2016

ARECHETA di Francesco Bisesti

Parola magica, sconosciuta eppure odorosa, e tale è rimasta per lungo tempo nel mio linguaggio: sconosciuta, estranea e inassociabile al sapore e al profumo, pure a me ben noti, dell’origano sulle alici in tortiera, sulla carne alla pizzaiola o, meglio ancora, sulla pizza alla marinara.
Dolce visione onirica quella che vivo ancor oggi, più e più volte, nella quale si riaffacciano le immagini, gli odori buoni e quelli cattivi, i suoni e i rumori della mia città e del mio quartiere al suo risveglio.
Verso la metà degli anni sessanta, ma anche ben oltre fino a quando non fu poi soppiantata da un negozio moderno che a dire il vero stona ancora oggi nel contesto del vicolo, all’angolo tra via San Giovanni Maggiore Pignatelli e via Benedetto Croce - conosciuta ai più con l’appellativo di Spaccanapoli - c’era una bottega la cui grossa insegna in ferro, sul lato di Via San Giovanni Maggiore, scriveva a caratteri cubitali in bianco “Arecheta”. Lo sfondo, un tempo di colore blu, si era poi annerito nel corso dei decenni e appariva semplicemente scuro all’occhio dei passanti più distratti. L’altra insegna, come ovvio, si affacciava invece su Via Croce ma, di questa, non mi ero mai curato.
In realtà quella bottega era una via di mezzo tra un negozio e un deposito, dove quello che si percepiva di certo era che vi si vendeva il carbone, sicuramente destinato ad alimentare in massima parte i forni delle numerose pizzerie della zona ma anche, in misura minore, per finire arso in un braciere riposto sotto il tavolo del pranzo nelle abitazioni più povere a riscaldare, nelle fredde sere d’inverno, almeno i piedi e le gambe dei commensali durante la cena.
La polvere nera aveva scurito non solo le pareti interne ma perfino la pavimentazione stradale antistante ai due ingressi.
Dunque la parola Arecheta, rispetto a quello che appariva essere il principale oggetto dell’attività, ancora una volta non sembrava avesse in alcun modo attinenza con quest’ultima.
Altro articolo oggetto del commercio, ma ben più nobile, era l’olio venduto presumibilmente in lattine dopo laboriose, e piuttosto unte, operazioni di travaso che avevano contribuito nel tempo a stratificare la fuliggine facendola indelebilmente attecchire per ogni dove. Un dettaglio dei principali prodotti offerti dalla ditta era comunque esposto in una sorta di locandina in ferro, sempre su sfondo blu e con le scritte in bianco, che dava mostra di sé lateralmente a ciascuno dei due ingressi alla bottega. E, anche qui, “l’arecheta” era in primissimo piano.
Dalla strada si vedeva troneggiare al centro del locale una grossa bilancia Berkel, un tempo di colore rosso ma poi anch’essa assuefattasi alla polvere di carbone, mentre tutt’intorno regnava un caos di sacchi, di scatoloni e, solo in qualche angolo, s’intravedevano sul fondo dei piccoli scaffali che ospitavano, probabilmente, le lattine d’olio appena confezionate.
Per andare un po’ più indietro nei secoli, ma più avanti sul finire del ventesimo, si potrebbe dire che antenata di quella bottega, questa volta priva di insegna, poteva sicuramente esser quella di Gasperino carbonaro nel film di Alberto Sordi “Il Marchese del Grillo” uscito quasi vent’anni dopo.
Dopo il primo anno delle medie, trascorso presso la scuola Francesco Torraca sulla collina del Vomero, percorrevo ogni mattina quella strada per recarmi al Michelangelo Schipa a Salita Pontecorvo, più su di piazza Dante in direzione di Montesanto e poi, più in avanti, per frequentare il ginnasio del Liceo Antonio Genovesi di piazza del Gesù Nuovo la cui sezione staccata, ove fui iscritto nel biennio che appunto precedeva il liceo, aveva sede invece in via Benedetto Croce all’interno di un palazzo appena sulla destra dell’incrocio con via San Giovanni Maggiore Pignatelli.
Ebbene alla mia sinistra, prima di uscire dal mio vicolo, puntualmente ogni mattina si riproponeva il solito interrogativo sul significato di quell’insegna e di quella magica scritta: “Arecheta”.
In casa mi era proibito di parlare il dialetto napoletano e conseguentemente anche i miei genitori usavano, ma forse solo in mia presenza, rivolgersi a me sfoggiando un rigoroso italiano appena inquinato dall’inflessione e dall’inconfondibile cadenza tipica di chi, nato a Napoli, si traduce nelle esse morbide e trascinate come fossero sci, sce o in vocali liberamente aperte. Dunque di arecheta non avevo mai sentito parlare in vita mia e questa parola, che non faceva parte del mio vocabolario, rimase per un bel po’ a me del tutto sconosciuta.
Il suo profumo, lo scopersi dopo, lo conoscevo invece profondamente per quante erano le volte che, passando davanti alla pizzeria Lombardi a Santa Chiara, rallentavo volutamente la mia andatura per annusare gli odori che da questa emanavano. Don Luigi sfornava margherite e marinare fin dal primo mattino e, da un banchetto esterno al locale che custodiva ben calde le mini pizze da asporto, richiamava a voce alta l'attenzione dei passanti e, come per ossequiarli, si rivolgeva loro con titoli di ogni specie: “ingegnere”, “dottore”, “commendatore”, “cavaliere”.
Cento lire per una pizza. A me don Luigi aveva affibbiato il titolo di avvocato: me lo son portato dietro per anni, e ogni qualvolta passavo titubante, da un lato contando le monetine che avevo in tasca e dall’altro rivolto ad “assaporare" col mio olfatto gli aromi dell’origano sulla pizza, mi salutava urlando: “avvoca’ accattateve n‘a pizza” (avvocato compratevi una pizza)!  Ma finiva sempre che i miei soldi non bastavano e allora tiravo dritto.
Quello però era il profumo della spezia che conoscevo, mentre l’arecheta costituiva ormai il mio interrogativo quotidiano.
Inutile provare a chiederne il significato o la traduzione a qualche amico, mio coetaneo dodicenne, ne avrei provato vergogna e fu così che, forse, mi decisi a girare la domanda alla maggiore delle mie cugine, che fu poi mia seconda maestra nello studio dell’odioso calcolo matematico.
La sua fu una risposta quasi seccata come del tipo: “ma come che cos’è l’arecheta? è l’origano”!
Qualche anno dopo, da studente liceale, la risposta tra l’altro l’avrei anche trovata da solo quando piuttosto che girare a destra per recarmi in Via Benedetto Croce alla sezione del ginnasio dovetti invece dirigermi sul lato opposto verso piazza del Gesù. L’insegna dopo l’incrocio, da me mai osservata prima, scriveva a grossi caratteri "Origano".
Miracolo! E mentre provavo grande soddisfazione nel ricevere quella conferma, rimuginavo sulle lamentele che i miei professori dovevano certamente rivolgere a mia madre quando s’interessava del mio profitto: “E’ un giovane intelligente, ma è troppo distratto”! 
 

mercoledì 18 maggio 2016

NOSFERATU di Giuseppe Novellino

 
Nel Campo della Rimembranza si poteva giocare, ma con qualche precauzione. Bisognava guardarsi dal vigile urbano che quasi sempre aveva qualcosa da ridire sul comportamento dei ragazzini. Quell’area verde, infatti, non era destinata al libero divertimento.
Tuttavia i giovanissimi non riuscivano a trattenersi. Per loro le siepi, il manto ghiaioso, i muretti, i quattro pini e i due cedri rappresentavano un invito a rincorrersi, ad arrampicarsi e a saltare. Soprattutto la chiesetta commemorativa, che occupava quasi tutto il lato orientale dell’area, esercitava su di loro una forte attrazione. Due cancelli laterali con lo scudo e tre lance incrociate (uno dei quali quasi sempre aperto) immettevano in una specie di cortiletto retrostante, pieno di sterpi e cespugli incolti. Quel luogo recondito era una vera tentazione, se non altro perché dagli addetti comunali veniva considerato zona off limits. Ma la cosa che più incuriosiva era l’accesso a un seminterrato il cui perimetro coincideva con quello della costruzione.
Elisabetta e Lorenzo erano seduti sui gradini davanti al portale di bronzo che immetteva nella cappella. Con loro c’era anche un ragazzetto un po’ più grande, di nome Fabio.
- Sapete chi è Nosferatu? – domandò quest’ultimo.
- Nosfe… Chi? – fece Lorenzo. Il nome non gli suonava del tutto estraneo. L’aveva già sentito. – Ah, sì – aggiunse subito, -  alla televisione… Anche tu, Elisabetta?
La bambina scrollò le spalle, il viso imbronciato.
- Nosferatu è una creatura delle tenebre – disse Fabio con enfasi. – Se ne sta al buio e, quando meno te l’aspetti, ti salta addosso e ti succhia il sangue.
Lorenzo fece una risatina nervosa. – Ah, ecco… un vampiro. Ma i vampiri sono solo nei film, anche in quelli che si vedono alla tele.
- Non è il caso di Nosferatu – sentenziò il ragazzo più grande. - Quello esiste veramente. Lo possiamo trovare anche qui. – Esitò un momento, accentuando l’espressione di arcano. – Forse anche nel sotterraneo di questa chiesetta.
La bambina aveva raccolto le gambette nude e teneva i ginocchi contro il mento. Adesso sembrava intimidita. Da oltre il muro, che separava il Campo della Rimembranza dal collegio di Santa Croce, arrivò, portato dalla brezza, un odore di minestrone. Un clacson cominciò a suonare in modo insistente: era di una Topolino, ferma accanto al marciapiede. Il proprietario teneva la portiera aperta e premeva nervosamente il mozzo del volante per chiamare qualcuno.
- Tu le spari un po’ grosse – disse Lorenzo.
Fabio sputò lontano. – Scommettiamo?
- Ma cosa vuoi scommettere! – cercò di tagliar corto Lorenzo.
- Voglio andare a casa – disse Elisabetta. – Manca poco alla cena.
Il sole non era ancora tramontato. La bella sera di maggio offriva ancora uno scampolo di luce.
- Dì piuttosto che hai paura – buttò lì Fabio, lanciando a Lorenzo un’occhiata di traverso.
- Paura di cosa?
- Di andare nel sotterraneo della chiesa e attraversarlo tutto.
- Per vedere se incontro Nosferatu?
- Non si sa mai.
Elisabetta balzò in piedi. – Io vado a casa. Non mi piacciono questi discorsi.
A Lorenzo, invece, in un certo senso piacevano. Era abbastanza attirato dai misteri e anche dalle sfide.
- E tu – disse dopo un momento di silenzio, - non hai paura? Di andare nel sotterraneo, dico.
L’altro stette un po’ a pensare, poi rispose: - Di andare nel sotterraneo no, ma di Nosferatu sì.
- Ma fammi il piacere!
- Lo so che potrebbe non esserci… ma non è detto. Nosferatu amerebbe un posto come quello. Lo sai che cosa ci sta dentro la chiesa? Le ossa dei caduti.
- Lo so. Ma che c’entra?
- C’entra, c’entra! Te lo dico io.
- Io vado – disse Elisabetta. – Mi fate paura. – Saltò tre gradini della scalinata e atterrò sulla ghiaia.
- Okay – fece Lorenzo. – Dì alla mamma che arrivo presto anch’io.
- La tua sorellina è proprio una fifona – commentò Fabio.
- Lei non c’è mai andata nel sotterraneo. Non è un posto per le bambine di sette anni.
- Ma nemmeno per quelli di nove – disse Fabio, alludendo a Lorenzo.
Quest’ultimo si alzò in piedi lentamente. – Bene, ti sfido.
- Chi, tu?
- Sì, io.
Il ragazzetto più grande, di anni ne aveva undici. Secondo Lorenzo, era uno sbruffone e amava spararle grosse per impressionare i più piccoli, che poi disprezzava senza pietà.
- Io sono pronto ad attraversare tutto il sotterraneo – disse Lorenzo -  e non ho paura di questo Nosferatu. - Ebbe l’impressione che il compagno più vecchio fosse impallidito. Ma forse era la luce languida del sole morente.
- Tu sei pazzo! – disse Fabio.
- No, mi sa che sei tu il fifone.
- Ehi, dico… - fece quello alzandosi in piedi.
Lorenzo aveva la netta sensazione di tenerlo in pugno. Gli era balenata l’idea che poteva in qualche modo umiliarlo. Delle due l’una: o quello avrebbe fatto una brutta figura, rinunciando all’impresa, oppure sarebbe stato sbugiardato circa le sue frottole su Nosferatu.
- Forza, allora, andiamo nel sotterraneo – fu la sfida di Lorenzo.

C’era stato solo un paio di volte. Invece Fabio, a suo dire, vi si era infilato spesso, e con grande coraggio.
Effettivamente il luogo era tetro. Un cancelletto cigolante immetteva in una stanza fiocamente rischiarata da una feritoia. Poi si passava in un’area completamente buia e da questa in un terzo locale che presentava lo stesso tenue chiarore del primo, prodotto da un’apertura analoga e simmetrica. Il primo vano era sotto il lato sud del tempietto, il terzo sotto il lato nord, il centrale (quello cieco) in corrispondenza dell’altare. L’inquietudine di un eventuale visitatore era prodotta dal locale di mezzo. Lorenzo ricordava di averlo attraversato una volta, di corsa, e di avere provato un vero terrore.
Scesero i tre gradini infestati dagli sterpi e spalancarono il cancelletto in ferro battuto.
- Vai avanti tu? – fece Lorenzo.
- Certo, fifone.
Dentro si respirava un’aria umida e stantia che sapeva di polvere e di muschio.
Lorenzo si sentiva calmo e stranamente coraggioso. Forse era la voglia di sfidare quell’arrogante cacciaballe, sempre pronto a spaventare i più piccoli.
- Andiamo insieme… o uno alla volta? – domandò. Prima che il compagno aprisse la bocca, Lorenzo intuì la risposta.
- Insieme.
Fabio se la faceva sotto, era evidente. Di tutta la sua spavalderia era rimasto ben poco.
Si accostarono a quella specie di porta priva di battenti, che immetteva nella camera più buia. Si intravedeva il debole chiarore provocato dall’altra feritoia che inondava con la sua scarsa luce il terzo locale.
- Fino in fondo, allora… e ritorno – propose Lorenzo.
- S…sì – disse Fabio con voce incerta. Poi, con più forza: - Andiamo!
Erano sulla soglia, sull’orlo dell’antro buio. In quelle tenebre poteva celarsi di tutto.
Qualcosa si piazzò davanti alla feritoia, là in fondo, oscurandola. Poi si udì una specie di grugnito e una fiammella si accese, che illuminò un volto, fluttuante nell’oscurità.
- Aaah! – urlò Fabio.
- Nosferatu – uscì dalla bocca di Lorenzo.
Fu un attimo di paralisi, poi i due ragazzi si precipitarono verso la porticina d’accesso, salirono i tre gradini spintonandosi, attraversarono l’incolta vegetazione e raggiunsero il cancello grande. Corsero sulla ghiaia del parco fino al marciapiede che correva lungo uno dei suoi lati.
- Che fate, ragazzi? – Era la voce di un vigile che passava in quel momento in bicicletta.
Ansavano ed erano bianchi per lo spavento.
Lorenzo stava per dire qualcosa, indicando la chiesetta, ma Fabio gli diede una gomitata. Tacque. Non poteva dire al vigile che erano scesi nell’interrato.
- Avete in mente qualche diavoleria, eh? – disse ancora l’agente. – Su, andate a casa che i vostri genitori vi aspettano per la cena.
Il sole era tramontato, l’aria s’era fatta più fresca. Pochi veicoli transitavano nella via.
Dopo che il vigile se ne fu andato, i due rimasero a lungo in silenzio. Lo ruppe Lorenzo:
- Chi c’era là sotto?
- Nosferatu – rispose Fabio con voce rotta. Poi, acquistando più sicurezza, aggiunse: - Che ti dicevo? Avevo ragione, sì o no?
Ma Lorenzo non lo stava ascoltando. Allungò un braccio in direzione del cancello che immetteva nel retro del tempietto. – Guarda!
Stava uscendo un uomo, con una giacchetta informe e i calzoni rattoppati. Sulla testa portava un cappellaccio a larghe tese che doveva essere sudicio e unto. Si guardava intorno con sguardo furtivo. Poi accostò il cancello dietro di sé. In bocca teneva un mezzo sigaro e con quello mandava nuvole di fumo azzurrognolo tutt’intorno al viso ricoperto da una barba ispida e rossiccia.
- Ma è Tonio, il mendicante di Albosaggia! – gridò Fabio con una note isterica.
- Già, Tonio. Si è ficcato là sotto forse per farsi un pisolino in solitudine. – Dedicò uno sguardo al compagno. – Altro che Nosferatu!
- Ma allora, la sua faccia…
- In quel momento si era illuminata perché aveva acceso il toscano – fu il realistico commento di Lorenzo.
L’uomo si era accorto della loro presenza. Fece un gestaccio come per mandarli a quel paese. Poi sistemò la sacca sulle spalle e si avviò con passo pesante sulla ghiaia del Parco della Rimembranza.

 

 

giovedì 12 maggio 2016

IL MESSO COMUNALE di Paolo Secondini

Primavera 1960.
Era, don Berto, un vecchio macilento, di media statura e curvo su se stesso. Indossava un abito grigio piuttosto consunto e un cappello di feltro a larghe tese, grigio pur esso.
Camminava appoggiandosi a un bastone, che gli dava quasi l’aria di un signore – come lui in fondo amava apparire –, benché fosse povero e di umili origini.
Lo si credeva, in paese, un messo comunale: in realtà si recava, di sua iniziativa, di casa in casa, a informare la gente degli avvisi che ognuno avrebbe potuto leggere sui manifesti affissi nelle strade. Non pretendeva compensi per questa mansione, ma un bicchiere di vino, allorché gli era offerto – e questo accadeva sovente –, non lo rifiutava: lo si capiva dal naso perennemente rosso nel volto pallido e sottile.
Almeno due volte a settimana don Berto veniva a casa nostra.
Venne anche quel giorno.
Non appena la mamma dischiuse la porta d’ingresso, il vecchio si diresse speditamente verso la cucina: ormai conosceva la strada. Si accomodò su una sedia, dopo essersi tolto il cappello e averlo poggiato, assieme al bastone, sul tavolo.
Da una cartella egli trasse, con fare lento e aria di importanza, alcuni fogli che, per qualche momento, si rigirò tra le mani, guardò uno per uno, lesse soltanto con gli occhi, muovendo il capo velocemente da destra a sinistra e viceversa.
«Ah, ecco!» disse alla fine. «Si tratta di questo… Se permettete, signora, vi riassumo il contenuto in poche parole… Dal tredici al quindici giugno il vostro quartiere, per delle riparazioni a una conduttura, resterà senz’acqua. Il Comune consiglia i cittadini di farsene buona provvista per quel periodo.»
Seguì un momento di silenzio, poi:
«Dal tredici al quindici giugno, avete detto?» chiese la mamma.
Il vecchio guardò il foglio che ancora stringeva tra le dita.
«Proprio così, signora… dal tredici al quindici di giugno.»
«Ma di questo ero al corrente. Mi avete informata voi stesso due giorni or sono. Non ricordate?»
«Possibile?!»
«Ma certo, don Berto! Sapevo perfettamente che l’acqua mancherà dal tredici al quindici di questo mese.»
Il vecchio prese a grattarsi freneticamente tra i radi capelli; fissò la mamma per un istante; infine assunse un’espressione desolata.
«Se è così,» disse, allargando le braccia, «mi dispiace di avervi disturbata. Sono mortificato, cara signora. Cosa volete, alla mia età…»
«Quando avete un avviso da comunicare,» lo interruppe la mamma, «fareste bene a segnarvi su un foglio o un taccuino le case in cui vi recate. In questo modo eviterete di visitare la stessa due volte, come appunto è accaduto.»
Don Berto annuì; sollevò leggermente le spalle; si schiarì la voce.
«Avete ragione,» ammise. «Il vostro è davvero un buon consiglio… Vi chiedo scusa.»
Fece per alzarsi, con un’espressione delusa sul volto. La mamma se ne accorse.
«Vi prego,» disse, «restate seduto ancora un poco. Chissà quanto avete camminato da questa mattina! Su e giù per tutto il quartiere… Non gradireste un bicchiere di vino?»
D’un tratto gli occhi del vecchio parvero illuminarsi. Era ciò che voleva sentire da quando era entrato in casa nostra.
«Oh!» fece. «Ogni volta, signora, vi prendete disturbo.»
«Cosa volete che sia!» rispose la mamma. «Un bicchiere di rosso è quel che ci vuole.»
«L’accetto volentieri. Specialmente ora che, avvicinandosi l’estate, comincia a far caldo.»
E appena la mamma gli ebbe versato un bicchiere di vino, don Berto lo bevve d’un fiato; poi un altro e un altro ancora…
Alla fine si alzò dalla sedia, ringraziò, prese il cappello e il bastone e, un po’ barcollando, si diresse verso la porta.
Probabilmente si sarebbe recato nella casa vicina a comunicare l’imminente mancanza dell’acqua in tutto il quartiere.
La mamma rimase a osservare il vecchio che si allontanava nella strada, con la cartella da messo comunale sotto il braccio.
La udii mormorare:
«Chissà quanto rosso sarà il naso di don Berto questa sera, all’ora di rincasare!» Sorrise, crollando la testa. «Con tutto il vino che ancora berrà, sarà rosso come un peperone.»

lunedì 9 maggio 2016

SU E GIÙ PER LE SCALE di Francesco Bisesti

Te voglio bene assaie… mi ero svegliato con questo motivo nella testa e con la voce di Lucio Dalla in sottofondo, che delizia! E ti seguii, in quella tiepida mattinata di primavera, per le strade di Napoli: piazza Dante e poi lungo Via Roma fino ed oltre piazza Carità, tra i mille profumi delle pizzerie, del cioccolato di Gay Odin, delle pasticcerie e delle sfogliate calde che si mescolavano agli infami umori del traffico.
Era la prima volta che marinavo la scuola, ma l’aria, il primo sole e la città quasi me lo avevano imposto. Il senso di libertà che provavo mi trasmetteva un'energia sconosciuta fino a quel momento. Era persino la prima volta che mi improvvisavo "pappagallo" ed ero quindi ansioso di scoprire come sarebbe finito quel mio tentativo di seduzione. 
 All’incrocio con Via Diaz varcasti l’ingresso della Rinascente e mentre dietro di te mi accingevo, sempre per la prima volta, a metter piede in quel grande magazzino la porta di accesso al negozio, nel chiudersi, mi spruzzò sotto il naso un alito del tuo profumo o, forse, più semplicemente del tuo sapone. Giravi distratta tra i banchi, poi su per le scale mobili e ancora giù per lo stesso percorso. E, dopo circa un'ora, ci ritrovammo finalmente fuori! Continuavo a seguirti come rapito.
E prendesti per i vicoli dei Quartieri in direzione, immaginai, della scala che, immobile questa volta, conduce a San Martino se i piedi e le gambe ti assistono. E infatti, su per la Speranzella, Vico Noce e poi Via Francesco Girardi: eccola lì, dinanzi a noi, una sfilata immensa di gradini sconnessi che, in discesa, avrebbero spaventato perfino Wanda Osiris. 
Salivi impassibile e tranquilla lungo la Pedamentina dei miei sogni e dei miei ricordi. Salivi mentre io sudavo finché, stremato, tra la disperazione e la stanchezza, spinsi sotto i miei piedi l'ultimo sprazzo di energia riuscendo persino a superarti, ma per gettarmi esausto ai tuoi piedi: basta, ti prego. E' da questa mattina che ti seguo e finché erano scale mobili andava pure bene, ma adesso! Fermati un solo attimo! E scoppiammo in una lunga risata riprendendo, questa volta insieme, la “scalata” fino al Largo di San Martino.
Mai mi era capitato di salir quelle scale con tanta gioia, con tanto piacere e con tanta leggerezza. Forse non lo avevo nemmeno mai fatto prima ed era anche questa, per me, la prima volta. Era la mia prima esperienza di ascesa, dai bassifondi di Napoli, alla collina del Vomero.
Il Museo di San Martino ci comparve di fronte non appena sbucati dal budello delle scale: quanta storia, quanta austerità, quanta bellezza mai apprezzata prima di allora!
Travestito da cicerone ti raccontai chissà quali fandonie su quel luogo, su quella residenza regale, finché ci ritrovammo affacciati sulla città! E mentre mi immergevo nei tuoi occhi verdi, dal belvedere mi si parò davanti un panorama mozzafiato che oscurava perfino la tua bellezza e, tra i riccioli dei tuoi capelli biondi, mi distrassi a guardare il mare e, sullo sfondo, il Vesuvio.
Un palloncino, comprato da un ambulante per farti sorridere, ci tenne compagnia mentre seduti, in silenzio, ci nutrivamo di quell’immagine stupenda.
Nel blu di un cielo terso che si tuffava fino a confondersi nel mare, partisti in quel pomeriggio dal molo Beverello lasciandomi il solo ricordo dei tuoi occhi e dei tuoi capelli, del tuo profumo al sapone, del Vesuvio e di un palloncino lasciato volar via nel segno di una vana speranza di rivederci.
E mentre la brezza portava alle mie labbra il sale del mio mare, mai assaporato prima, riconobbi poi quello di una lacrima che mi solcava il viso.

giovedì 5 maggio 2016

AGENZIA DI VIAGGI di Fabio Calabrese

 
Andarono a lamentarsi dal tour operator.
“Il mio viaggio è stato una vera odissea”, disse Ulisse.
“Io mi sono dovuto sobbarcare una dozzina di fatiche”, disse Ercole.
“Il mio è stato un calvario”, disse Gesù, “E poi mi è toccato pure fermarmi a Eboli”.
“Il nostro è stato un vero inferno”, aggiunsero Dante e Virgilio.
“Io sono tornato tutto pieno di dolori”, disse il giovane Werther.
“Io per ventimila leghe non ho visto altro che fondali”, disse il capitano Nemo.
“Io ci ho messo una vita”, disse Italo Svevo.
“Io mi sono dovuto mettere in viaggio al termine della notte, senza neanche riuscire a prendere un caffè”, si lamentò Louis-Ferdinand Celine.
“Io per trovare alloggio sono dovuto arrivare là dove nessun uomo era mai giunto prima”, protestò il capitano Kirk.
A questo punto il tour operator si spazientì e disse:
“Tu, Dante, per esempio, non mi starai mica facendo la Commedia? E tu, Joyce, mi hanno detto che hai viaggiato col biglietto di Ulisse”.
L'unico soddisfatto era Jules Verne: in ottanta giorni si era fatto il giro del mondo, e in un tempio indiano aveva pure potuto vedere i bramini che rivolgevano i loro bramiti a un diorama del dio Rama.