Eri solo una
cucciola quando ti trovai, della razza canina che più preferisco: quella bastarda.
Il muso
poggiato sulle zampe, te ne stavi acciambellata nel fosso dove t’avevano
lasciata.
Avevi vicino
dei tozzi di pane e un recipiente con acqua, perché colui che t’aveva
abbandonato – poverino! – non voleva soffrissi la fame, né la sete, in quel torrido
mese d’agosto.
Quando ti
vidi mi venne spontaneo chiamarti Bella,
forse anche per sopperire, con quel nome, alla tua simpatica bruttezza. Una
cagnetta graziosa non eri infatti, ma mi piacesti ugualmente… Mi piacquero
molto i tuoi occhi grandi, marroni; il tuo modo intenso di guardare, che suscitava
nel cuore un senso di dolcezza; il tuo frenetico scodinzolare allorché, per la
prima volta, sentisti la mia voce:
«Vieni qua,
Bella! Non aver paura… Non voglio farti alcun male.»
Indugiasti
un attimo solo, poi ti accostasti, la testa bassa, guaendo sommessamente: credo
di gioia o, forse, di timidezza.
Restando
piegato sulle ginocchia, ti arruffai il pelo sul dorso con una carezza
vigorosa. Tu, allora, ti avvicinasti ancora di più e poggiasti il muso sulla
mia coscia. Sentii il caldo della tua lingua che leccava l’altra mia mano.
«Su, Bella!»
dissi ancora alzandomi. «Vieni con me, da brava!»
In principio
non ti muovesti, anzi arretrasti un poco: avevi ancora paura.
Presi a
incitarti, a rassicurarti, a parlarti. E di certo cogliesti nella mia voce
qualcosa di molto suadente, qualcosa di nuovo che fino ad allora non avevi
sentito in un essere umano: l’amore.
«Su, Bella!»
dissi di nuovo. «Seguimi! Ti porto a casa.»
Andai
avanti.
Mi venisti
dietro.
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