giovedì 3 marzo 2016

SUONI E RUMORI DI CASA di Francesco Bisesti

Quante volte mi sono abbandonato all’ascolto distraendomi volentieri dallo studio o da qualunque altra attività.
Non ho mai sobbalzato ad alcuno degli improvvisi, sommessi rumori o suoni che accompagnavano spesso i gesti di mia madre, affaccendata in cucina o intenta a lavorare ai ferri mentre fumava una sigaretta. Il calpestio pantofolaio di mia nonna, nel suo lento incedere da una camera all’altra, era come una ninna nanna cantata a bassa voce a un bimbo che non riesce a dormire.
I suoi gesti, sempre uguali, erano quelli del ripiegare le buste della spesa, i ritagli di carta o le pagine di giornale per conservarle una sull’altra con il minimo ingombro. Era dolce immergersi in quei piccoli movimenti che assomigliavano ognuno a una carezza amorevole data ora con una mano, ora con l’altra.
Al mattino presto, appena sveglio, mentre mi attardavo sotto le coperte adoravo ascoltare le note che accompagnavano la preparazione del caffè alle quali seguivano sempre, puntuali, gli aromi della bevanda ormai pronta. Prima il rumore dell’acqua, poi quello dei vari pezzi di alluminio della caffettiera girati e rigirati sotto il getto del lavandino. Seguivo ormai le fasi rituali una ad una riconoscendo dai rumori i gesti: la caffettiera appoggiata sul marmo, poi quello del riempimento del contenitore del caffè che finiva rovesciato su di essa e, infine, il lento scroscio dell’acqua appena bollita che vi si versava per poi attendere, in silenzio, che il filtraggio fosse completo.
Dopo un po’, quando l’odore di caffè si spandeva per tutta la casa, la voce di mia madre prorompeva incitandomi ad alzarmi: “il caffè è pronto, svegliati che è tardi”.
Facevo perfino delle distinzioni tra i rumori e i suoni feriali e quelli della domenica, profondamente diversi perché più rilassati. Il risveglio di buon mattino di mio padre, riconoscibile dal passo e dal rumore felpato dalle sue pantofole marroni a strisce incrociate e dalla suola di finta gomma, era spesso presagio della sua intenzione di dedicarsi al ragù e la conferma arrivava subito dai suoni metallici delle stoviglie, dal rumore del tegame posato sul fornello, dell’anta della credenza che si apriva per tirar fuori l’olio, dello scartare la carne comprata la sera prima e poi dal suo rosolarsi, sfriggendo, assieme alle cipolle minuziosamente tritate. Poi, la cottura a fiamma vivace continuava con l’aggiunta di un bicchiere di vino, mentre un profumo irresistibile iniziava a diffondersi per tutta la casa. I rumori pian piano si smorzavano, fin quasi a placarsi del tutto, con l’arrivo del pomodoro passato e alla cottura lenta che poi ne seguiva. Quando il sugo riprendeva a bollire, peppiava producendo un rumore di bollicine che scoppiano delicatamente per lanciare, oltre il bordo del tegame, schizzi odorosi di rosso pomodoro.
Se le intenzioni erano proprio quelle di strafare, i rumori dei quali era capace mio padre non si fermavano lì. Sentivo ancora una volta l’anta della credenza aprirsi, poi quello della spianatoia di legno appoggiata sul tavolo, l’acqua del rubinetto che si gettava con forza in una pentola e poi il rumore di questa mentre finiva sui fornelli. Ed ecco il bollore, cui seguiva il delicato immergersi delle patate nell'acqua bollente e, infine, il rumore provocato dallo scartare di una busta: quella della farina. Era chiaro che mio padre aveva tutta l’intenzione di condire gli gnocchi con il ragù che era già sul fuoco, divina domenica!
Sgusciavo in cucina e mi sedevo di fianco alla tavola per ascoltare il silenzioso lavorio delle mani nella preparazione dell’impasto, dalla sua stesura al taglio in tanti dadini, e poi ancora quello del dito con cui questi venivano sapientemente incavati: più che un rumore un sibilo, un soffio che se mi fossi allontanato solo di qualche centimetro non sarei riuscito neanche a percepire. Un’altra indimenticabile carezza.
I rumori delle feste, che fossero quelle del Natale o quelle di Pasqua, erano tutti figli delle attività di mia madre. Se sentivo friggere, erano gli struffoli del Natale, se il forno andava a mille c’erano le pastiere a succedersi nella cottura. Inutile dire che, quand’anche non avessi riconosciuto uno ad uno i rumori, i profumi inconfondibili del miele, dell’acqua di millefiori e della cannella erano in questi casi elemento che non poteva lasciare equivoci sul cosa “bollisse in pentola”.
L’uccisione del capitone, di solito, non produceva molti rumori o perlomeno non così forti da superare le urla di mia madre che sopravanzavano di gran lunga quelli prodotti dal coltello che scalfiva il marmo, dal capitone che si precipitava sul pavimento mentre mia nonna, pur tenendosi lontana dalla mischia, cercava - poco distante - di impartire consigli sul come agguantare e tener ferma la bestia.
Nei pomeriggi d’inverno, se per una qualunque ragione aveva litigato con mamma, la nonna veniva a rifugiarsi nella mia camera per recitare sottovoce il rosario: un misto incomprensibile di bisbigli articolati da un continuo movimento delle sue piccole labbra dalle quali era possibile intuire, solo in rarissime occasioni, la letterale pronuncia di un “Padre Nostro”.
Quei suoni erano musica e parole mentre i rumori, piccoli e silenziosi, facevano parte di un mondo, piccolo anch’esso a sua volta: il mio mondo, ormai lontano dalla realtà ma vicino, allo stesso tempo, profondamente inciso nella memoria.
 

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