mercoledì 30 marzo 2016

DUE TRIESTINI A VIENNA di Fabio Calabrese

Ci sono due tipi di leggende: uno, di origine molto remota, parla di fate, draghi e principesse. Queste storie si raccontano ai bambini per tenerli buoni dentro casa nelle giornate di pioggia o la sera a letto per farli addormentare. Le leggende del secondo tipo sono di origine più recente e trattano di argomenti vari, si bisbigliano nei bar, per strada, al mercato. Trieste, come tutte le regioni italiane, è ricca di leggende dell'uno e dell'altro tipo, ma quella che ora vi racconterò appartiene decisamente al secondo.
L'epoca in cui si svolge rimane piuttosto imprecisata, ma era suppergiù quella in cui i triestini e gli abitanti del Litorale si definivano ancora “Dele vece (delle vecchie) province”, sebbene “le nuove” che l'Austria aveva acquisito col Congresso di Vienna se ne fossero andate da un pezzo, una prima parte nel 1859, il rimanente nel 1966.
Era più o meno l'epoca in cui un certo professor Giacomo Zois (1) era venuto a Trieste dall'Irlanda per insegnare inglese alla Berlitz School, e qui si era trovato fra i suoi allievi uno più anziano degli altri, un certo Ettore Schmitz (2), di età vicina alla sua, e diventato presto suo amico e compagno di bisbocce, che incoraggiò a intraprendere la carriera letteraria.
Il professor Zois, tanto per capire che tipo fosse, appena giunto nella stazione di Trieste e smontato sulla banchina del treno, trovò modo di essere coinvolto in una rissa, e in seguito era possibile trovarlo a tarda sera dalle parti di via Crosara duro come un scalin, come si dice dalle nostre parti, ossia reso dall'alcool della stessa consistenza di un elemento architettonico atto a costruire rampe e altri mezzi per salire, ma questa è una storia che magari vi racconto un'altra volta.
Trieste ha fatto parte dell'impero austriaco fino al 1918. Fino a un secolo fa, i legami fra Trieste e l'Austria erano importanti e numerosi. La storia, che risale a quell'epoca, narra di un commerciante triestino, che chiameremo Bepi (Giuseppe) Frausin, che si era dovuto recare a Vienna per affari. Bepi conosceva il tedesco come in genere lo conoscono i triestini che, come tutti sanno, sono poliglotti nati.
Dopo aver sbrigato il suo affare, e poiché rimaneva ancora diverso tempo prima di riprendere il treno per Trieste, Bepi Frausin decise di fare un giro per la città. Mentre camminava, Bepi incrociò un altro triestino, Toni (Antonio) Ulcigrai (3), impiegato dell'imperial-regio governo, che era stato mandato nella capitale per un corso di aggiornamento. I due non si conoscevano e non avevano nessuna idea di essere concittadini.
A un certo punto, Toni Ulcigrai gridò:
Auge, Auge!
(“Occhio, occhio! Attenzione!”, ma in tedesco non si usa, si dice Achtung!).
Le sue parole furono subito seguite da un forte fracasso.  
Was ist geboren?”, chiese Frausin.
(“Cosa è nato? Cosa è successo?”, ma in tedesco si dice Was ist los?)
Ein Dunkel ist gefallen von viertel Klavier”, rispose Ulcigrai.
(“E' caduto uno scuro – un'imposta – dal quarto piano”, cioè letteralmente: E' caduto un buio dal quarto pianoforte”).
Allora Bepi Frausin esclamò:
Deine Griechische Mutter!
(“To mare grega” - “Quella greca di tua madre!” - tipica imprecazione triestina (4) ).
A questo punto, i due si riconobbero per concittadini, e decisero di andare a bersi una birra insieme.
Toni Ulcigrai decise poi di accompagnare fino alla stazione il suo nuovo amico.
Arrivati nell'atrio della stazione, i due si imbatterono in un tabellone che diceva:
Fahrplan fuer Personenzuege” (“Orario treni passeggeri”).
Bepi Frausin chiese a Ulcigrai, che era a Vienna da più tempo di lui, di tradurglielo.
E Toni, pronto:
Far pian che le persone ziga” (“Fare piano, che le persone urlano”).
Non si sa come, nonostante l'aiuto di Ulcigrai, alla fine Bepi Frausin riuscì a salire sul treno che lo riportò a Trieste.
Mentre saliva sulla carrozza che lo riportava a casa, Bepi Frausin non poté trattenersi dal pensare che, si Vienna era una gran bella città, ma che i viennesi erano gente strana, e il soggiorno viennese doveva aver reso un po' strano anche Toni Ulcigrai.
 
Note:
1.   James Joyce.
2.   Italo Svevo
3.   Frausin, Ulcigrai: cognomi tipici triestini, ovviamente, per motivi di privacy, non sono quelli originali.
4.   Secondo un'altra leggenda locale, questa espressione sarebbe nata in seguito a un soggiorno di Ugo Foscolo nella città giuliana.
 
 

martedì 22 marzo 2016

UN INCONTRO di Paolo Secondini

Eri solo una cucciola quando ti trovai, della razza canina che più preferisco: quella bastarda.
Il muso poggiato sulle zampe, te ne stavi acciambellata nel fosso dove t’avevano lasciata.
Avevi vicino dei tozzi di pane e un recipiente con acqua, perché colui che t’aveva abbandonato – poverino! – non voleva soffrissi la fame, né la sete, in quel torrido mese d’agosto.
Quando ti vidi mi venne spontaneo chiamarti Bella, forse anche per sopperire, con quel nome, alla tua simpatica bruttezza. Una cagnetta graziosa non eri infatti, ma mi piacesti ugualmente… Mi piacquero molto i tuoi occhi grandi, marroni; il tuo modo intenso di guardare, che suscitava nel cuore un senso di dolcezza; il tuo frenetico scodinzolare allorché, per la prima volta, sentisti la mia voce:
«Vieni qua, Bella! Non aver paura… Non voglio farti alcun male.»
Indugiasti un attimo solo, poi ti accostasti, la testa bassa, guaendo sommessamente: credo di gioia o, forse, di timidezza.
Restando piegato sulle ginocchia, ti arruffai il pelo sul dorso con una carezza vigorosa. Tu, allora, ti avvicinasti ancora di più e poggiasti il muso sulla mia coscia. Sentii il caldo della tua lingua che leccava l’altra mia mano.
«Su, Bella!» dissi ancora alzandomi. «Vieni con me, da brava!»
In principio non ti muovesti, anzi arretrasti un poco: avevi ancora paura.
Presi a incitarti, a rassicurarti, a parlarti. E di certo cogliesti nella mia voce qualcosa di molto suadente, qualcosa di nuovo che fino ad allora non avevi sentito in un essere umano: l’amore.
«Su, Bella!» dissi di nuovo. «Seguimi! Ti porto a casa.»
Andai avanti.
Mi venisti dietro.

giovedì 17 marzo 2016

UNA CHITARRA A FRECCIA di Giuseppe Novellino

    
     Novembre 1966. Una triste serata d’autunno.
     Pioveva a dirotto.
     Giuseppe udì sbattere la porta d’ingresso: uno di quei rumori domestici, fastidiosi, che tra l’altro avevano il potere di ridurre la già scarsa concentrazione nello studio.
     Emerse dalla sua versione di latino e si lasciò andare contro lo schienale della sedia, sbuffando.
     - Insomma, Lorenzo! – rimproverava in quel momento la mamma, intenta a preparare la cena. – Devi sempre essere scambiato per un plotone di bersaglieri, quando entri?
     Fece seguito un urlo, come quello di Tarzan quando si lancia appeso a una liana.
     Giuseppe balzò in piedi. Questo era troppo, non si poteva stare tranquilli in quella benedetta casa. Nel momento che usciva dall’angusta cameretta, urtò contro il fratello.
     Lorenzo era eccitatissimo.
     - Ma che diavolo…- fece Giuseppe, al colmo dell’irritazione.
     - Ce l’ho fatta, Giuse. Vieni a vedere che roba! - Lo trascinò come se fosse un pesante sacco di patate.
     Nell’atrio c’era una rigida custodia per chitarra.
     Giuseppe sgranò tanto d’occhi. – Non dirmi…
     - Sì, sì, sì! È proprio lei, la “Eko Rokes”!
     Fammi vedere, disse il fratello, eccitato.
     I due suonavano nello stesso complesso, gli Evasi. Solo che, a differenza di Lorenzo e degli altri due compagni musicisti, Giuseppe era un fan dell’Equipe 84. I primi tre, invece, impazzivano per i Rokes. Comunque ne veniva fuori un bell’impasto di sfumature musicali. I loro risultati erano discreti, soprattutto quando si cimentavano nelle canzoni del famoso quartetto italiano, che però eseguivano con evidente spirito “rokesiano”. Lorenzo e il bassista Francesco, infatti, riuscivano ad armonizzare le loro voci, al punto di assomigliare ai coretti dei Rokes.
     Lorenzo estrasse lo strumento e lo tenne sollevato in aria.
     Rimasero in silenzio.
     Una meraviglia.
     Poi se lo mise a tracolla, allargò le gambe e accennò un gesto arioso, come quello dei suoi mitici Rokes.
     - Allora hai concluso lo scambio – disse Giuseppe, dopo un bel momento.
     - Sì.
     - Il motorino… - Era di Lorenzo, ma veniva poco utilizzato. Entrambi si servivano della vecchia Lambretta che era stata di papà.
     - Aveva le gomme lisce… e poi faceva un po’ difetto nella carburazione.
     - Pensi di averci guadagnato? – domandò Giuseppe.
     - Credo di sì, Ferruccio non ha voluto altro. Scambio perfetto. – Il nuovo proprietario del ciclomotore era un ragazzino di quindici anni e da un po’ di tempo gli faceva la corte.
     - Forse eri tu che dovevi chiedergli qualcosa, in aggiunta.
     - Ma che… scherzi? Una “chitarra Rokes”! Ci ho guadagnato io nel cambio.
     Giuseppe scosse la testa. - È pur sempre un prodotto della Eko, non di una grande marca. Aveva però capito l’entusiasmo del fratello. Con quello strumento in mano, adesso si sentiva come uno dei quattro celebri musicisti di origine inglese. Valore affettivo, dunque. Giuseppe era in grado di comprendere, ma non di condividere.
     In quel momento apparve il padre, con gli occhiali riportati sopra la fronte e il giornale aperto.
     - Che cosa è tutto ‘sto chiasso? Non si può leggere in santa pace, dopo una giornata di lavoro.
     - Papà, ti piace? – fece Lorenzo, esibendo la chitarra.
     - Ma che è? – disse il padre, strizzando gli occhi, come se fosse infastidito da una forte fonte luminosa.
    - Non lo vedi? – disse Lorenzo.
    - Una freccia…
    - Ma suona.
    - E c’è bisogno di farla in quella forma, una chitarra?
    - Ma sai che colpo farò sulle ragazze?
    - Ho capito – commentò il padre. – Roba da capelloni. Una volta si incantavano le ragazze con le note musicali, non con la forma delle chitarre.
    - Sei un matusa, papà! – esclamarono in coro i due ragazzi.
    Mentre fuori diluviava e la mamma finiva di preparare la cena, Lorenzo e Giuseppe inserirono la “Eko Rokes” nel piccolo amplificatore e cantarono insieme: “Ho in mente te”.
 

 

domenica 13 marzo 2016

ESTATE DELLA NOSTRA FANCIULLEZZA di Paolo Secondini

Giocavamo per strada nelle sere d’estate della nostra fanciullezza. Correvamo, saltavamo, gridavamo sotto il cielo trapunto di stelle, nel mezzo del quale splendeva il pallido volto della luna.
«Non mi prendi, non mi prendi.»
«Di là, di là.»
«Son qua.»
«Ahi!»
«Non lasciarlo.»
«Sì, sì!»
«Acchiappalo, acchiappalo!»
«Non farlo scappare.»
«Oh!»
«…sette, otto, nove, dieci: chi è dentro è dentro, chi è fuori è fuori.»
«Ehi, ehi.»
«Uh! Oh!»
«Buuuuuuuuh!»
«Tana libera tutti.»
«Uno, due, tre, stella!»
«Regina reginella, quanti passi devo fare per venire al tuo castello con la fede e con l’anello, con la punta del coltello?»
Le nostre voci si alzavano acute; attiravano il lento guardare degli adulti – uomini e donne –, al fresco sull’uscio delle case.
Essi narravano fatti di tempi lontani: fatti ora lieti, ora tristi, che non suscitavano il nostro interesse come in altre occasioni quando, assorti, immobili, col fiato quasi sospeso, restavamo, seduti per terra, ad ascoltare.
Non paghi di giochi e di allegria, guardavamo gli adulti a nostra volta, sperando vederli sempre là per moltissimo ancora: vederli parlare, ridere… piangere anche.
Ma quando l’ultimo d’essi rincasava, rincasavamo anche noi, ciascuno chiamato dalla mamma:
«Antonio!»
«Paolo!»
«Gino!»
«Anna!»
«A casa!»
«È tardi!»
D’un tratto deserta e silenziosa, la strada pareva che dormisse sotto il cielo trapunto di stelle, nelle sere d’estate della nostra fanciullezza.

sabato 12 marzo 2016

FIGURE di Teresa Regna


Una striscia di luce
un nastro sottile
disegna figure
che danzano snelle
cambiano forma e colore
compatte come soffi di vento
 morbide come gocce di rugiada.
Ridono, allegre come sogni,
mentre l’ombra le attraversa.                          
Ammiccano, lievi come gioia,
mentre svaniscono lente.
Per un lungo istante
hanno assaporato
la felicità.
 

martedì 8 marzo 2016

IL RACCONTO CHE SI SCRIVE DA SÉ di Teresa Regna

C’era o non c’era una volta
importanza non ha:
il racconto si scrive da sé
e sempre si scriverà.
Le parole sono pietre
profumate di passione,
che si incastrano le une nelle altre
a formare un’emozione.
Le parole costruiscono un magico puzzle a forma di cerchio, o forse di piramide, o chissà di cubo. I trapezi sono figure geometriche piane usate nei circhi per imparare a volare. Le parole sono figure di senso che si cementano in mattoni per permettere alle persone di spiccare il volo.
Senza un racconto non esisterebbe la vita. Ogni essere vivente, infatti, ha qualcosa da raccontare, e contiene un racconto dentro di sé. E’ sufficiente liberarlo affinché si scriva, piantando il seme di nuovi racconti e di nuovi esseri.
Le parole sono pietre gettate in uno stagno, onde che liberano la fantasia in cerchi concentrici di luce interiore. Si intersecano senza toccarsi nel profondo finché non vengono accarezzate dal tepore della poesia.
Se l’essere è il racconto, la poesia è l’essenza, il cuore del racconto: le vibrazioni di un albero che cattura la luce del sole, il ritmo interiore di un bambino che sorride, il suono arcano di un amore che nasce.
Il racconto è una composizione armonica fatta di parole, che contiene in sé l’essenza della vita. L’armonia, pur imprigionata nell’angusto guscio di parole che giocano a rimpiattino, sprigiona tutta la sua potenza creativa.
Il suono è parte della parola, come è parte della musica, e trova la sua collocazione nel cuore dell’esistenza, che pulsa negli esseri viventi, nelle costruzioni di parole e, in ultima istanza, nell’universo stesso.
La parola crea, mentre il racconto perfeziona ciò che è stato creato, infondendo in esso la linfa della poesia. C’è poesia nella prosa, nel mondo, nella vita, in ogni piccolo gesto d’amore.
Lembi di realtà e lembi di fantasia si uniscono a formare il racconto. Che si scrive da sé, prendendo vita a poco a poco. L’autore/autrice non deve far altro che lasciare che acquisisca una forma, che scaturisca dall’austera penna di un tempo o dalla tastiera di un odierno computer. Il mezzo non ha importanza, la mano che l’aiuta a nascere ne ha soltanto relativamente. L’importante è che il racconto cominci, si espanda o si comprima a seconda dei casi, giungendo alla sua forma compiuta.
Il protagonista, l’essenza del quale viene svelata, può essere un uomo, un animale, un vegetale, o un oggetto inanimato: l’anima, in ogni caso, verrà conferita ad esso per mezzo della parola, che affiancata ad altre parole darà vita al racconto.
C’era una volta
il racconto perfetto,
fatto e finito,
completo e riletto.
All’autore dedicò uno sberleffo:
da solo mi scrivo
e sempre lo farò,
disse in uno sbuffo
di fumo che nel cielo
si inoltrò.

domenica 6 marzo 2016

SALMONE di Giuseppe Novellino

     Pioviggina. Goccioline di acqua ghiacciata vengono portate da un venticello che si infila nei vicoli della città vecchia e frusta dolorosamente la faccia.
     Antonio è appena uscito dal negozio, stringe al fianco il sacchetto di cibarie da poco acquistate; dovrebbe rientrare a casa il più presto possibile perché sono quasi le sette e Wanda lo attende per mettere qualcosa in pentola. Ma i piedi gli sono diventati pesanti, come se si volessero rifiutare di portarlo, attraverso le viuzze che sono particolarmente tristi (almeno così a lui sembrano) e fredde, quella sera di fine febbraio.
     Imboccata via Cavallotti, si sente come Cristo sul Calvario. E quando è in prossimità di Piazza Campello, si infila in un bar. C’è un bel calduccio lì dentro, pochi avventori e dietro il banco una donna bionda, bene in carne, che strofina bicchieri con aria svagata. Da una radio viene la voce di Gino Latilla che canta “Tutte le mamme”, il suo successo dell’ultimo San Remo.
     Sceglie un tavolo in fondo al locale, sotto una targa con la réclame della China Martini. Posa il sacchetto su una sedia, si accomoda e accavalla le gambe, guardando davanti a sé con aria avvilita. Infila una mano in tasca per prendere una sigaretta, ma non ne ha. E quando la florida barista gli si avvicina per l’ordinazione, lui risponde: - Un’aranciata. – Non che ne abbia voglia, ma non gli viene in mente nient’altro.
     - Va bene, signor maestro.
     Prima che lei  torni al banco, Antonio chiede – Mi conosce?
     - È l’insegnate del figlio di mia sorella, se non mi sbaglio: Michele Carini… Lo chiamano Chelino.
     - Ah, già! Chelino – fa lui con un sorriso di circostanza. 
     - È affezionato al suo maestro e spera di averlo fino in quinta.
     - Sarà senz’altro così – dichiara con voce incolore.
     - Eh, non si può mai sapere. Voialtri maestri meridionali un bel giorno ci piantate in asso e tornate al vostro paese.
     Antonio la guarda con più attenzione. – Non c’è pericolo… Mia moglie è sondriese. Abbiamo tre figli piccoli. Dove vuole che andiamo?
     La donna ammicca e sorride compiaciuta. – Le porto l’aranciata.
     - Grazie.
     Gli fa piacere essere conosciuto e chiamato “signor maestro”. I suoi genitori, laggiù al paese, ne sarebbero orgogliosi. Peccato che debbano solo immaginarselo. Comunque, Sondrio è una cittadina piccola; quasi tutti si conoscono.
     La voce di Gino Latilla ha ceduto il posto a quella di Carla Boni che ora canta “Non è mai troppo tardi”.
     La donna gli si avvicina di nuovo con il vassoio, lo serve in silenzio.
     Antonio si porta il bicchiere alle labbra. La bevanda fredda e frizzante  gli procura una violenta scossa, non solo allo stomaco. Ed ecco, il ricordo si staglia di nuovo con violenza nella sua mente. Cosa dirà a sua moglie, per giustificarsi?
     - Buona sera, maestro Novellino.
     Antonio si girò di scatto. – Buona sera, signor direttore.
     - Cosa fa di bello, in giro con questo freddo?
     - Stavo guardando la vetrina – rispose in tono di giustificazione. - Dovrei comprare un paio di scarpe nuove per il mio Giuseppe, il bambino più grandicello.
     - Eh, già, oggi è giorno di paga.
     Antonio batté una mano vicino all’ascella. – Ho appena ritirato lo stipendio. Sì, signor direttore, oggi è il ventisette.
     - Bene, bene! – approvò il superiore con giovialità paternalistica. – Faccia pure, arrivederci.
     - Penso che lo comprerò domani pomeriggio, insieme a mia moglie. Sa, le donne sono più pratiche in queste cose… Davo un’occhiata, così, tanto per vedere cosa offre il negozio.
     - Allora può accompagnarmi per un pezzo. Dove va?
     - A casa, naturalmente. Ma prima dovrei passare a prendere qualcosa nel negozio di alimentari.
     - Beh, anch’io. Mi accompagni fin da Pozzoni.
     La rosticceria e salumeria del suddetto si trovava una settantina di metri più avanti.
     - Bene, signor direttore, vengo anch’io.
     - Vuole fare spesa da Pozzoni? – domandò il funzionario meravigliato, stringendosi nel cappotto dal collo di pelliccia.
     - Già che mi trovo…
     Il direttore fece una specie di risatina che sembrava un colpetto di tosse… o forse era il contrario.
     Ad Antonio appariva gratificante quell’incontro estemporaneo, fuori dalle formalità che si dovevano rispettare nell’esercizio delle pubbliche funzioni. Da un po’ di tempo il superiore l’aveva preso a benvolere (lui se n’era accorto con una certa soddisfazione), dimostrando approvazione e interesse per il suo modo di insegnare. E siccome il maestro era ancora alle prime armi, passato in ruolo solo l’anno precedente, ciò acquistava una certa importanza. Il direttore avrebbe potuto mettere una buona parola a suo beneficio, tenendolo nella scuola di Via Cesare Battisti anche l’anno scolastico successivo, o forse più a lungo. Altrimenti, essendo quella sede solo provvisoria, gli sarebbe facilmente toccato prendere servizio  in qualche paese sperduto della Provincia, magari a Trepalle, in alta montagna. E con la famiglia che si ritrovava… Sì, verso il direttore doveva essere deferente e solerte, e doveva cercare il più possibile di fare con lui una bella figura.
     Dall’incrocio con la stretta via Cavallotti veniva un’allegra e martellante musichetta suonata da un organetto di Barberia. Due bambini correvano inseguiti da un cagnetto che abbaiava in modo stizzito.
     - Prego, maestro.
     - Si figuri! Dopo di lei – fece Antonio, aprendo la porta vetrata del negozio.
     L’interno era una festa per gli occhi e per il naso. C’era ogni ben di Dio, ordinatamente disposto sopra e dietro il banco, sui fianchi del locale. E prosciutti appesi al soffitto che promettevano le delizie del paradiso. Antonio, da Pozzoni, c’era stato solo una volta e ora si sentiva attratto ma anche un po’ intimidito. Suo suocero gli diceva sempre che quella era una bottega per i signori, e che lui, Celso, non se la poteva permettere.
     C’era solo una giovane donna, come cliente. La stava servendo un solerte commesso con i capelli lucidi di brillantina.
     - Signor maestro, se permette… Devo solo prendere una cosetta. Così, tanto per fare una sorpresa a mia moglie.
     - Ma si figuri! – fece Antonio, lasciandosi scappare un vero e proprio inchino.
     Rivolto all’altro, dietro il banco (doveva essere il padrone), il direttore ordinò:
      - Mi dia cinquanta grammi di quel salmone.
      Antonio notò che sulla faccia del superiore si era stampata un’espressione che sembrava di golosità. Poi vide il bottegaio prendere una fettina di polpa rosata e metterla in un cartoccio oleato, piegarlo con cura come fosse una reliquia e porgerlo al cliente.
     - Grazie – disse quest’ultimo.
     - Ne dia anche a me – si affrettò a dire Antonio.
     - Quanto, signore?
     - Beh… - indugiò Antonio. Non sapeva quanto prenderne. Lui, il salmone non lo aveva mai mangiato e quello era forse il momento buono per assaggiarlo. A casa c’erano quattro bocche da sfamare, più la sua. Va bene che tre erano solo boccucce, ma a volte proprio i piccoli sbafano ai quattro palmenti, quando si tratta di novità golose.
     - Me ne dia un chilo… anzi, faccia un chilo e mezzo.
     Il salumiere spalancò gli occhi.
     - È sicuro? – fece il direttore didattico, che col suo involtino in mano si stava avvicinando alla cassiera.
     - Beh, insomma… noi siamo in cinque… sa… - farfugliò Antonio.
     Il bottegaio già si era messo al lavoro.
     Dopo aver pagato, il direttore sembrava aver fretta di uscire – Allora la saluto, Novellino.
     - Arrivederci, signor direttore – rispose Antonio, chinando rispettosamente il capo.
     Poi fece le altre ordinazioni.
     Porta il bicchiere d’aranciata alle labbra, ma con uno scatto lo posa di nuovo sulla superficie del tavolo.
     L’occhio gli cade di nuovo sul pacco della spesa.
     Il suo stipendio è di sessantaduemila lire. In un attimo ne ha spese quasi trentamila. Oltre al chilo e mezzo di salmone, ha acquistato quelle due o tre cosette che doveva portare a casa quella sera: tre scatole di sardine sott’olio, una bottiglia di vino, due etti di prosciutto cotto e del formaggio da grattugiare. Ma da Pozzoni tutto è di prima qualità: il vino valtellinese, di riserva; il prosciutto, un Granbiscotto di primissima scelta; il formaggio, un parmigiano reggiano doc.
     Cosa avrebbe detto, Wanda, davanti a un simile salasso? È già difficile arrivare alla fine del mese, soprattutto quest’anno che il padrone di casa ha aumentato l’affitto. Poi ci sono le scarpe di Giuseppe e un paio di altre spese indispensabili. Sente un nodo in gola e lo stomaco sossopra. La bibita non ha fatto altro che peggiorare la situazione.
     Con uno scatto si alza in piedi. Guarda per un momento il sacchetto di carta colorata che contiene le cibarie acquistate. Vorrebbe afferrarlo e scaraventarlo sulla strada. Invece se lo riprende e va verso il banco.
     Qui, un avventore (sembrava quasi un barbone) sta dicendo alla barista:
     - Sì, questa sera non bado a spese. È il mio compleanno. Sono sessanta, sa? Mi dia un calice di quello buono… il migliore che ha. Si vive una volta sola.
     Antonio lascia i soldi sul banco. Prima di uscire vede l’avventore con il bicchiere di vino alzato, rivolgersi a lui.
     - Alla sua salute, signore!
     Risponde con un sorrisetto spento, poi esce. Anche la prosperosa barista gli ha fatto un cenno di saluto con il capo.
     Lo investe un soffio di vento gelido che fa mulinare un foglio di carta bianca. Stringendo il pacco al suo fianco, si avvia di buon passo.
     Ma sì, pensa Antonio, si vive una volta sola. Se Wanda avesse fatto delle scenate, l’avrebbe zittita. Dopotutto era lui il capofamiglia. Dei suoi sbagli non avrebbe dovuto rendere conto a nessuno, nemmeno alla moglie. Lui era padrone di fare e disfare. Li guadagnava lui i soldi, no? E in qualche modo avrebbe rimediato. Nel mese di marzo mese avrebbe fatto economia, a cominciare dalle sigarette. Quella sera non ne ha in tasca e non ne sente un particolare bisogno.
     I soldi. Portare nel portafoglio sessantaduemila lire dà una certa emozione. Forse, pensa, è stato proprio per la consapevolezza di avere in tasca quella cifra che non ha badato a spese. Deve avere fatto certamente un’ottima figura davanti al salumiere e alla sua cassiera, ma soprattutto davanti al direttore.
     - Salmone – dice a voce alta, prendendo a calci un barattolo schiacciato. – Speriamo che sia buono quanto costa.
      Ma aveva la vaga sensazione che gli sarebbe rimasto sullo stomaco.
 

    

    

giovedì 3 marzo 2016

SUONI E RUMORI DI CASA di Francesco Bisesti

Quante volte mi sono abbandonato all’ascolto distraendomi volentieri dallo studio o da qualunque altra attività.
Non ho mai sobbalzato ad alcuno degli improvvisi, sommessi rumori o suoni che accompagnavano spesso i gesti di mia madre, affaccendata in cucina o intenta a lavorare ai ferri mentre fumava una sigaretta. Il calpestio pantofolaio di mia nonna, nel suo lento incedere da una camera all’altra, era come una ninna nanna cantata a bassa voce a un bimbo che non riesce a dormire.
I suoi gesti, sempre uguali, erano quelli del ripiegare le buste della spesa, i ritagli di carta o le pagine di giornale per conservarle una sull’altra con il minimo ingombro. Era dolce immergersi in quei piccoli movimenti che assomigliavano ognuno a una carezza amorevole data ora con una mano, ora con l’altra.
Al mattino presto, appena sveglio, mentre mi attardavo sotto le coperte adoravo ascoltare le note che accompagnavano la preparazione del caffè alle quali seguivano sempre, puntuali, gli aromi della bevanda ormai pronta. Prima il rumore dell’acqua, poi quello dei vari pezzi di alluminio della caffettiera girati e rigirati sotto il getto del lavandino. Seguivo ormai le fasi rituali una ad una riconoscendo dai rumori i gesti: la caffettiera appoggiata sul marmo, poi quello del riempimento del contenitore del caffè che finiva rovesciato su di essa e, infine, il lento scroscio dell’acqua appena bollita che vi si versava per poi attendere, in silenzio, che il filtraggio fosse completo.
Dopo un po’, quando l’odore di caffè si spandeva per tutta la casa, la voce di mia madre prorompeva incitandomi ad alzarmi: “il caffè è pronto, svegliati che è tardi”.
Facevo perfino delle distinzioni tra i rumori e i suoni feriali e quelli della domenica, profondamente diversi perché più rilassati. Il risveglio di buon mattino di mio padre, riconoscibile dal passo e dal rumore felpato dalle sue pantofole marroni a strisce incrociate e dalla suola di finta gomma, era spesso presagio della sua intenzione di dedicarsi al ragù e la conferma arrivava subito dai suoni metallici delle stoviglie, dal rumore del tegame posato sul fornello, dell’anta della credenza che si apriva per tirar fuori l’olio, dello scartare la carne comprata la sera prima e poi dal suo rosolarsi, sfriggendo, assieme alle cipolle minuziosamente tritate. Poi, la cottura a fiamma vivace continuava con l’aggiunta di un bicchiere di vino, mentre un profumo irresistibile iniziava a diffondersi per tutta la casa. I rumori pian piano si smorzavano, fin quasi a placarsi del tutto, con l’arrivo del pomodoro passato e alla cottura lenta che poi ne seguiva. Quando il sugo riprendeva a bollire, peppiava producendo un rumore di bollicine che scoppiano delicatamente per lanciare, oltre il bordo del tegame, schizzi odorosi di rosso pomodoro.
Se le intenzioni erano proprio quelle di strafare, i rumori dei quali era capace mio padre non si fermavano lì. Sentivo ancora una volta l’anta della credenza aprirsi, poi quello della spianatoia di legno appoggiata sul tavolo, l’acqua del rubinetto che si gettava con forza in una pentola e poi il rumore di questa mentre finiva sui fornelli. Ed ecco il bollore, cui seguiva il delicato immergersi delle patate nell'acqua bollente e, infine, il rumore provocato dallo scartare di una busta: quella della farina. Era chiaro che mio padre aveva tutta l’intenzione di condire gli gnocchi con il ragù che era già sul fuoco, divina domenica!
Sgusciavo in cucina e mi sedevo di fianco alla tavola per ascoltare il silenzioso lavorio delle mani nella preparazione dell’impasto, dalla sua stesura al taglio in tanti dadini, e poi ancora quello del dito con cui questi venivano sapientemente incavati: più che un rumore un sibilo, un soffio che se mi fossi allontanato solo di qualche centimetro non sarei riuscito neanche a percepire. Un’altra indimenticabile carezza.
I rumori delle feste, che fossero quelle del Natale o quelle di Pasqua, erano tutti figli delle attività di mia madre. Se sentivo friggere, erano gli struffoli del Natale, se il forno andava a mille c’erano le pastiere a succedersi nella cottura. Inutile dire che, quand’anche non avessi riconosciuto uno ad uno i rumori, i profumi inconfondibili del miele, dell’acqua di millefiori e della cannella erano in questi casi elemento che non poteva lasciare equivoci sul cosa “bollisse in pentola”.
L’uccisione del capitone, di solito, non produceva molti rumori o perlomeno non così forti da superare le urla di mia madre che sopravanzavano di gran lunga quelli prodotti dal coltello che scalfiva il marmo, dal capitone che si precipitava sul pavimento mentre mia nonna, pur tenendosi lontana dalla mischia, cercava - poco distante - di impartire consigli sul come agguantare e tener ferma la bestia.
Nei pomeriggi d’inverno, se per una qualunque ragione aveva litigato con mamma, la nonna veniva a rifugiarsi nella mia camera per recitare sottovoce il rosario: un misto incomprensibile di bisbigli articolati da un continuo movimento delle sue piccole labbra dalle quali era possibile intuire, solo in rarissime occasioni, la letterale pronuncia di un “Padre Nostro”.
Quei suoni erano musica e parole mentre i rumori, piccoli e silenziosi, facevano parte di un mondo, piccolo anch’esso a sua volta: il mio mondo, ormai lontano dalla realtà ma vicino, allo stesso tempo, profondamente inciso nella memoria.