venerdì 10 giugno 2016

QUANDO MORÌ LA MOGLIE DI CARLO MAGNO di Tommaso Di Brango

Un giorno Ildegarda, moglie di Carlo Magno, fu presa da un improvviso attacco di tosse. Sulle prime tutti, compresi i medici di corte, pensarono ad un raffreddamento passeggero, tanto che in effetti la consorte del sovrano prese anche a soffrire di raffreddore, e così nessuno si preoccupò più di tanto. Solo che poi, col passare del tempo, quei colpi di tosse e quel raffreddore si trasformarono in febbre, la febbre si trasformò in spossatezza e la spossatezza si trasformò in incapacità di muoversi.
Re Carlo seguì l’agonia dell’amata compagna con preoccupazione. Cercò in tutti i modi di capire cosa stesse accadendo, interrogò più e più volte i medici di corte e, visto che le loro diagnosi si mostravano ogni volta inadatte, ne chiamò altri, rivolgendosi infine anche a streghe e fattucchiere. Ma a nulla servirono i suoi sforzi ed un giorno, mentre i primi raggi del sole estivo colpivano il letto in cui l’amata Ildegarda giaceva, vide la sua compagna di vita spegnersi in silenzio.
Com’era normale che fosse, Re Carlo rimase molto scosso dall’avvenimento, e quelli che hanno assistito all’accaduto raccontano che non sembrava nemmeno più la stessa persona. Certo, la folta capigliatura scura del sovrano, attraversata da qualche non più piccola luce bianca, continuò ad accompagnare gli occhi chiari e la barba. E certo, le spalle del monarca continuarono ad essere quelle che avevano sostenuto mille e mille battaglie, costruendo un Impero che ambiva a replicare i fasti dell’antica Roma. Ma, nonostante tutto questo, era il piglio, il portamento, il modo di presentarsi di Re Carlo che non era più quello di una volta.
Si dice, anzi, che stesse sempre chiuso nella stanza in cui era venuta a mancare Ildegarda, che avesse preteso di tenere il suo corpo lì dentro, chiuso in una bara di cristallo, e che avesse imposto ai servitori di tenere sempre serrate finestre e tende della stanza, così da rimanere sempre al buio. Che cosa si aspettasse da un simile comportamento non è dato sapere: quel che è certo è che stava sempre al capezzale della moglie morta, assorto in lacrime e preghiere, come se quelle lacrime e quelle preghiere potessero avere la forza di riportarla in vita. E quest’andazzo durò per mesi, tanto che l’amministrazione dell’immenso Impero di Re Carlo passò, di fatto, nelle mani dei funzionari, e quando giunsero gli invasori dal Catai fu compito del maggiordomo di corte organizzare l’esercito.
Naturalmente il regno ed anche la guerra, senza il sovrano che aveva sconfitto i longobardi, non potevano essere la stessa cosa, ed alla fine dell’anno i guerrieri dagli occhi a mandorla erano arrivati ad assediare Parigi senza che Re Carlo, i cui occhi erano persi nel buio della camera da letto regale, ne sapesse nulla. Ma d’un tratto, un mattino, accadde una cosa imprevista. Un servitore di corte, infatti, nel fare le pulizie della stanza – cosa molto difficile, visto che doveva spostare ragnatele che non poteva vedere e togliere polvere di cui riusciva appena ad intuire l’esistenza – spostò inavvertitamente una tenda, ed un raggio di sole cadde sulla bara di cristallo in cui era rinchiusa Ildegarda. Così, per un attimo, l’occhio di Re Carlo non ebbe di fronte a sé il buio, ma l’immagine di quel che la sua amata compagna era nel frattempo diventata. E sulle prime il sovrano rimproverò il servitore, intimandogli con forza di fare più attenzione nei movimenti. Ma poco dopo, fermandosi e tornando alle sue lacrime ed alle sue preghiere, fu colto da un dubbio.
Era ancora sua moglie quella che il raggio di sole attirato inavvertitamente dal servitore gli aveva fatto vedere? Lui ricordava che Ildegarda aveva un volto geometrico, tondeggiante ma non rotondo, che sembrava essere uscito dal pennello di un pittore. E ricordava che le sue mani erano piccole e affusolate, fatte apposta per essere accarezzate e sorrette dalle sue, che invece erano grandi e slanciate. E ricordava anche che i capelli di Ildegarda erano mori e lunghi, e cadevano lisci sulle spalle dando al suo viso l’immagine che ha quello delle Madonnine nei santuari. C’era ancora qualcosa di tutto questo, in quel che aveva appena visto?
La luce del sole gli aveva fatto vedere che quei capelli non c’erano più, ed al posto del viso di luna di Ildegarda era rimasto un teschio nel quale non si agitavano nemmeno più – dal momento che avevano ormai finito di consumare tutte le risorse disponibili – animali d’ogni sorta. E poi le mani: quelle si erano ridotte ad un mucchietto d’ossa nemmeno troppo legate tra loro, incapaci di ricevere e di comunicare l’amore che un tempo avevano saputo trasmettere.
Re Carlo rimase per un po’ a pensare a tutte queste cose. Poi, d’un tratto, si alzò. Uscì dalla camera da letto, giunse a corte e chiese che il corpo di Ildegarda venisse trasferito nel cimitero di famiglia, nella tomba dove anche lui, al momento del trapasso, avrebbe voluto esser posto. Preso atto, poi, della disgraziata situazione militare del suo Impero, ringraziò il maggiordomo di corte per gli sforzi profusi, lo sollevò dall’incarico di comandante militare e si mise a guidare personalmente le sue truppe. Nel giro di tre mesi gli invasori del Catai tornarono in Oriente, giurando che non avrebbero mai più messo piede nelle terre di Re Carlo. Quest’ultimo, da parte sua, indisse una grande festa per celebrare la cacciata degli aggressori, e mentre la gente suonava, ballava e banchettava sotto i suoi occhi, ripensò ad un passo del Libro secondo di Samuele, in cui Davide, re degli ebrei, «danzava con tutte le sue forze davanti al Signore». Ma rimase solo un ricordo, a cui Re Carlo non diede alcun seguito.

2 commenti: