- Dài, Albe, tagliamo la corda.
- Così non possiamo più tornare per il
gioco degli scudi.
- E chi se ne frega!
- Dovrei stare in giro fino alle sette,
perché i miei genitori mi aspettano solo per quell’ora.
- Ce ne andiamo al solito posto, al
fresco. - Batté una mano sul taschino posteriore dei jeans. - Ci facciamo una
fumatina in santa pace. Ho rimediato quattro Alfa senza filtro.
Il posticino al fresco era una macchia di
noccioli e robinie, tra due campi di granoturco, presso il cimitero: luogo
davvero desiderabile, in quel caldo pomeriggio estivo.
Alberto scosse il capo, ma con una smorfia di approvazione.
La proposta aveva un suo senso, non c’era che dire.
- Okay, Dodo.
Erano in un angolo appartato, lungo la
recinzione dell’oratorio. Daniele, detto Dodo, indicò il punto, seminascosto da
cespi di ortiche e di cicorie selvatiche, dove la rete poteva essere rialzata,
tanto da far passare un ragazzino. Vi si avvicinarono, ma in quel momento
udirono la voce di don Livio.
- Avete intenzione di svignarvela, eh!
Presi in flagrante.
Il chierico si avvicinò a loro. Teneva le mani
sui fianchi, ostentando un atteggiamento severo. L’abito talare era un po’
corto e lasciava vedere gli scarponcini impolverati. Uno aveva anteriormente la
suola scucita.
- Eppure penso che vi faccia bene pregare
un po’, come tutti gli altri. Io avrei potuto non accorgermi della vostra fuga.
Ma Nostro Signore vi vede; a lui non potete sfuggire.
Alberto chinò la testa, mortificato. Dodo
invece tentò di giustificarsi. - Siamo venuti qui a parlare un po’.
- Appoggiandovi alla rete, vero? - disse
il religioso. - Proprio nel punto dove è rotta e si può facilmente
attraversare.
-
Noi non avevamo intenzione… - disse Alberto, diventando rosso per la bugia.
Ma
don Livio lo interruppe. - Potete prender in giro me, ma non la vostra coscienza.
- Incrociò le bracca sul petto. - Dato che anche l’altro ieri non c’eravate
alle preghiere, vi ho tenuti d’occhio.
Riguardo due ragazzi come voi che si appartano in questo modo, delle due
l’una: o hanno qualche brutta intenzione o semplicemente vogliono evitare di
andare in chiesa.
C’era un bel fresco lì dentro. Questo
almeno era il lato positivo. Le mura erano antiche. La vecchia chiesa di San
Rocco risaliva al quindicesimo secolo. Non era un granché, perché si trattava
di una costruzione minore senza pretese artistiche e architettoniche, ma aveva
tutte le carte in regola per accogliere nel modo migliore i fedeli che dovevano
pregare d’inverno come d’estate.
Alberto era seduto nel primo banco, in
mezzo ai ragazzi delle elementari. Dodo, invece, era tre banchi più indietro.
Così li aveva sistemati don Livio, separandoli come di dovere.
- Innanzitutto proviamo il canto per la
messa di domenica. - Fece una panoramica su quei settanta ragazzi seduti nella
penombra. - Mancano solo due giorni. Lo sappiamo abbastanza bene, ma dobbiamo
farlo entrare bene in zucca. - Tamburellò con l’indice sulla tempia.
Era da lunedì che provavano quel canto.
Una solfa. E una tortura per il povero Alberto. Lui era completamente stonato,
nel senso che non riusciva a prendere una nota che fosse una. Sentiva la
musica, certo, e gli piaceva anche, tuttavia non era assolutamente capace di
cantare. Alle elementari, la maestra si era rassegnata. Ma non era il caso di
don Livio, lì all’oratorio. Per lui non era possibile che qualcuno stonasse.
Sotto la sua direzione, i ragazzi dovevano usare le loro ugole al meglio, per
la gloria del Signore. Il più delle volte Alberto faceva finta di cantare,
muovendo solamente la bocca; ma dove si trovava adesso, nel primo banco, la
finzione sarebbe stata subito smascherata. Ve be’, avrebbe subito gli strali
del giovane chierico.
Che vennero puntuali.
- Qui c’è qualcuno che stona. Cantino solo
quelli della prima fila, qui davanti a me. Silenzio gli altri.
Riprovarono.
- Mi sa che sei tu, Poncelli.
Alberto abbassò il capo.
- Cantami la prima frase.
Lui sollevò lo sguardo, consapevole di
avere la faccia di un cane bastonato. – Io…
- Sì, tu - disse perentorio don Livio.
Brusio.
- Silenzio! - fece il religioso. - Adesso
ascoltiamo Alberto Poncelli.
No, non poteva cantare. La sua voce era
diventata tabù anche per le sue stesse orecchie. D’altronde non gli sarebbe
capitato nulla. Non era a scuola. Don Livio aveva solo il potere di
infliggergli punizioni da oratorio, come per esempio privarlo della merenda che
veniva distribuita dopo la mezzora trascorsa in chiesa, oppure non farlo
partecipare al gioco degli scudi. Chinò di nuovo il capo, labbra cucite.
- Bene, o meglio, mica tanto - riprese il
chierico con aria accigliata.- Ricominciamo.
- Secondo te, era proprio un sogno di Don
Bosco?
- Non l’ha specificato - rispose Daniele.
- Mah, penso di sì.
- Anche secondo me lo era - intervenne
Claudio, un ragazzino dai folti capelli rossi e la faccia lentigginosa. - Mi
piacciono un casino, i sogni di Don Bosco. E poi, come li racconta…
- Già - convenne Daniele, - sembra di
essere al cinema. Dopotutto è l’unico motivo per andare in chiesa a dire le
preghiere.
- E a cantare - disse Claudio
candidamente, ammiccando ad Alberto.
Sbocconcellavano la veneziana stantia che
era stata da poco distribuita. Non c’era stata punizione. In qualche modo la
cosa l’aveva meravigliato. Ma, a pensarci bene, forse l’ammonizione era insita
nel racconto di quel sogno. L’aveva impressionato.
Ignorò la frecciatina di Claudio e si
ficcò in bocca l’ultimo pezzetto di veneziana.
- Dài, siamo nella stessa squadra - li
incitò Claudio. – Andiamo a prendere gli scudi.
- Eppure non mi convince - borbottò
Daniele. - Quel sogno, dico.
- Fregatene. Andiamo! - lo strattonò
Daniele.
Erano sudati, ansanti, un po’ abbacchiati
per la sconfitta.
Alberto Poncelli e Daniele, detto Dodo, si
sedettero sotto l’ippocastano che rendeva meno squallido il fondo del campetto
di calcio, dove un alto muro di calcestruzzo, come quello di un carcere,
divideva l’oratorio dalla via adiacente. Intanto due squadre di ragazzi,
evidentemente non stanchi del gioco precedente, avevano improvvisato una
partita a pallone, arbitrata da un giovane educatore laico.
- Io ho messo a segno cinque colpi - disse
Daniele. - E sono rimasto in gara fino all’ultimo. Non mi hanno colpito… So
maneggiare bene lo scudo. A te, invece, t’hanno beccato… ma solo negli ultimi
minuti. Ti sei difeso bene.
Alberto non fece commenti. Stava con lo
sguardo a terra, le gambe raccolte sotto il mento.
- Ti brucia la sconfitta, Albe? - domandò
Daniele dopo un lungo silenzio.
L’altro scosse il capo.
- E allora che hai?
Non rispose. Raccolse un sassolino e lo
lanciò verso il campo da calcio, da cui veniva il vociare dei giocatori.
- Non dirmi che è ancora per quella storia
del canto.
- Non è per quello.
- E allora cosa…
- Il sogno che ci ha raccontato don Livio.
- Embè?
- Ma non ti sei accorto?
- Di che cosa?
- Che era dedicato a noi… a noi due.
Daniele esplose in una risata. - Già, un
po’ l’ho pensato anch’io, a un certo punto. Ma chi se ne frega.
Lo aveva raccontato molto bene. Don Livio,
d’altra parte, aveva recitato diverse volte su un palcoscenico, soprattutto
nella casa salesiana di Arese, da dove proveniva. Lo aveva confidato ai ragazzi
di San Rocco e diceva che dal prossimo inverno avrebbe messo su una piccola
compagnia filodrammatica dell’oratorio.
- Non penso che sia un sogno, anzi penso
che l’abbia inventato al momento.
Daniele gli dedicò una smorfia di
scetticismo. - Comunque sembrava proprio un sogno di Don Bosco.
- Certo, lo stile era quello. Don Livio le
sa, le cose, ed è bravo a raccontare. La storiella gli sarà venuta in mente in
quei dieci minuti prima di andare in chiesa, dopo che ci ha impedito di fare la
fuga.
- Dici?
- Dico. E la cosa mi conforta.
- Ti dà sollievo il fatto che l’abbia
inventata per l’occasione?
- Sì.
- Beh, sai che a ripensarci non hai tutti
i torti - ammise Daniele. - L’idea che lui o Don Bosco avessero sognato quella
situazione mi fa venire un po’ i brividi.
- Invece, se se l’è inventata, intendeva
spaventarci a mente lucida, perché ci guardassimo bene, la prossima volta, dal
marinare la preghiera.
Daniele scoppiò in una risata. - Già, ma
io mi tengo sempre da parte quelle quattro sigarette da fumarci al solito
posto. Lui può tenerci d’occhio fin che vuole, ma non può essere dappertutto. -
Fece l’occhiolino all’amico. – A noi la preghiera non va, tutti i giorni, non è
vero Albe?
- Certo, Dodo, il prete non può essere
dappertutto. Per questo ha voluto metterci in guardia con quella storiella.
La quale storiella faceva davvero venire i
brividi.
Alberto rivedeva la scena nella penombra
della chiesa. Il giovane religioso parlava con la sua voce calda e
accattivante. Non si sentiva volare una mosca. Quei settanta, tra ragazzetti e
bambini, erano seduti nei banchi, immobili e rigidi come statue.
E
don Livio aveva dimostrato come l’autore del sogno (lui stesso, un sacerdote
qualsiasi, Don Bosco?) fosse angustiato per quei due ragazzi (naturalmente
anonimi) che se ne stavano sempre soli, appartati. Più passava il tempo, più
essi sfuggivano ad ogni relazione e ad ogni controllo. Mentre gli altri
giocavano allegramente in gruppo, loro due rimanevano in disparte e per passare
il tempo cavavano dalle loro tasche rospi, lucertole e bisce schifose. Il
sacerdote cercava di richiamarli, di invitarli a integrarsi con gli altri. Ma
loro nulla, anzi sghignazzavano con delle facce che sembravano musi di maiali.
Poi veniva il momento di andare in chiesa a pregare. Il prete li scongiurava di
seguirli. Ma niente da fare. Invece di avviarsi verso la chiesa, nella quale
tutti gli altri stavano entrando, i due ragazzi si dirigevano dalla parte
opposta. E allora si materializzava una porta, massiccia, illuminata da una
strana luce rossastra. Poi si aprivano lentamente i battenti che lasciavano
intravvedere lo svolgimento di un banchetto, anzi un baccanale che doveva
essere molto divertente. I due si avviavano verso la porta, mentre il prete
gridava, scongiurandoli di non entrare. Ma loro varcavano la soglia di buon
grado e la porta si richiudeva alle loro spalle. E questa, prima di scomparire,
diventava rossa e poi veniva divorata dalle fiamme.
Alberto si alzò in piedi, con uno scatto.
- Te ne vai?
- Sì, Dodo, vado a chiedere a don Livio se
ha veramente fatto quel sogno o se se l’è inventato al momento.
- O se è di Don Bosco. Perché, sai… mi
sembra proprio di quello stile.
- E in tal caso farei una brutta figura. È
questo che vuoi dire?
- Certo, gli faresti capire che hai la
coscienza sporca - fece Daniele con acume.
Alberto stette un momento pensieroso.
Invidiava Daniele perché non era problematico, era istintivo, amante della
trasgressione. Proprio uno che se ne fregava. All’amico non veniva in mente di
contestare, nemmeno di chiedere spiegazioni. Prendeva la vita così, come
veniva, e se ne faceva un baffo di tutti quegli insegnamenti oratoriani. Eppure
non era cattivo. E naturalmente esercitava su di lui un certo fascino. Sì lui,
Alberto, si sentiva attirato dal compagno proprio perché lo compensava nei suoi
tormenti e nelle sue paure. Poi disse:
- Vado a bere un po’ d’acqua.
L’altro si alzò a sua volta. - Vengo anch’io.
- Forse hai ragione - borbottò Alberto,
dando un calcio a un rametto secco di ippocastano. - La cosa è destinata a
rimanere un mistero.
Un grido: - La porta! Non entrate nella
porta!
Alberto si girò di scatto, rimanendo per
un attimo impietrito.
- Che c’è? - fece Daniele.
- Niente.
Nel
campetto, stavano tirando una punizione. E l’arbitro, l’educatore laico, aveva
gridato a due calciatori che avevano superato la linea di demarcazione fra i
due pali, mettendosi quasi alle spalle del portiere.