mercoledì 22 giugno 2016

I SOGNI DI DON BOSCO di Giuseppe Novellino

     
- Dài, Albe, tagliamo la corda.
     - Così non possiamo più tornare per il gioco degli scudi.
     - E chi se ne frega!
     - Dovrei stare in giro fino alle sette, perché i miei genitori mi aspettano solo per quell’ora.
     - Ce ne andiamo al solito posto, al fresco. - Batté una mano sul taschino posteriore dei jeans. - Ci facciamo una fumatina in santa pace. Ho rimediato quattro Alfa senza filtro.
     Il posticino al fresco era una macchia di noccioli e robinie, tra due campi di granoturco, presso il cimitero: luogo davvero desiderabile, in quel caldo pomeriggio estivo.
     Alberto scosse il capo, ma con una smorfia di approvazione. La proposta aveva un suo senso, non c’era che dire.
     - Okay, Dodo.
     Erano in un angolo appartato, lungo la recinzione dell’oratorio. Daniele, detto Dodo, indicò il punto, seminascosto da cespi di ortiche e di cicorie selvatiche, dove la rete poteva essere rialzata, tanto da far passare un ragazzino. Vi si avvicinarono, ma in quel momento udirono la voce di don Livio.
     - Avete intenzione di svignarvela, eh!
     Presi in flagrante.
     Il chierico si avvicinò a loro. Teneva le mani sui fianchi, ostentando un atteggiamento severo. L’abito talare era un po’ corto e lasciava vedere gli scarponcini impolverati. Uno aveva anteriormente la suola scucita.
     - Eppure penso che vi faccia bene pregare un po’, come tutti gli altri. Io avrei potuto non accorgermi della vostra fuga. Ma Nostro Signore vi vede; a lui non potete sfuggire.
     Alberto chinò la testa, mortificato. Dodo invece tentò di giustificarsi. - Siamo venuti qui a parlare un po’.
     - Appoggiandovi alla rete, vero? - disse il religioso. - Proprio nel punto dove è rotta e si può facilmente attraversare.
     - Noi non avevamo intenzione… - disse Alberto, diventando rosso per la bugia.
     Ma don Livio lo interruppe. - Potete prender in giro me, ma non la vostra coscienza. - Incrociò le bracca sul petto. - Dato che anche l’altro ieri non c’eravate alle preghiere, vi ho tenuti d’occhio.  Riguardo due ragazzi come voi che si appartano in questo modo, delle due l’una: o hanno qualche brutta intenzione o semplicemente vogliono evitare di andare in chiesa.
 
      C’era un bel fresco lì dentro. Questo almeno era il lato positivo. Le mura erano antiche. La vecchia chiesa di San Rocco risaliva al quindicesimo secolo. Non era un granché, perché si trattava di una costruzione minore senza pretese artistiche e architettoniche, ma aveva tutte le carte in regola per accogliere nel modo migliore i fedeli che dovevano pregare d’inverno come d’estate.
     Alberto era seduto nel primo banco, in mezzo ai ragazzi delle elementari. Dodo, invece, era tre banchi più indietro. Così li aveva sistemati don Livio, separandoli come di dovere.
     - Innanzitutto proviamo il canto per la messa di domenica. - Fece una panoramica su quei settanta ragazzi seduti nella penombra. - Mancano solo due giorni. Lo sappiamo abbastanza bene, ma dobbiamo farlo entrare bene in zucca. - Tamburellò con l’indice sulla tempia.
     Era da lunedì che provavano quel canto. Una solfa. E una tortura per il povero Alberto. Lui era completamente stonato, nel senso che non riusciva a prendere una nota che fosse una. Sentiva la musica, certo, e gli piaceva anche, tuttavia non era assolutamente capace di cantare. Alle elementari, la maestra si era rassegnata. Ma non era il caso di don Livio, lì all’oratorio. Per lui non era possibile che qualcuno stonasse. Sotto la sua direzione, i ragazzi dovevano usare le loro ugole al meglio, per la gloria del Signore. Il più delle volte Alberto faceva finta di cantare, muovendo solamente la bocca; ma dove si trovava adesso, nel primo banco, la finzione sarebbe stata subito smascherata. Ve be’, avrebbe subito gli strali del giovane chierico.
     Che vennero puntuali.
     - Qui c’è qualcuno che stona. Cantino solo quelli della prima fila, qui davanti a me. Silenzio gli altri.
     Riprovarono.
     - Mi sa che sei tu, Poncelli.
     Alberto abbassò il capo.
     - Cantami la prima frase.
     Lui sollevò lo sguardo, consapevole di avere la faccia di un cane bastonato. – Io…
     - Sì, tu - disse perentorio don Livio.
     Brusio.
     - Silenzio! - fece il religioso. - Adesso ascoltiamo Alberto Poncelli.
     No, non poteva cantare. La sua voce era diventata tabù anche per le sue stesse orecchie. D’altronde non gli sarebbe capitato nulla. Non era a scuola. Don Livio aveva solo il potere di infliggergli punizioni da oratorio, come per esempio privarlo della merenda che veniva distribuita dopo la mezzora trascorsa in chiesa, oppure non farlo partecipare al gioco degli scudi. Chinò di nuovo il capo, labbra cucite.
     - Bene, o meglio, mica tanto - riprese il chierico con aria accigliata.- Ricominciamo.
     - Secondo te, era proprio un sogno di Don Bosco?
     - Non l’ha specificato - rispose Daniele. - Mah, penso di sì.
     - Anche secondo me lo era - intervenne Claudio, un ragazzino dai folti capelli rossi e la faccia lentigginosa. - Mi piacciono un casino, i sogni di Don Bosco. E poi, come li racconta…
     - Già - convenne Daniele, - sembra di essere al cinema. Dopotutto è l’unico motivo per andare in chiesa a dire le preghiere.
     - E a cantare - disse Claudio candidamente, ammiccando ad Alberto.
     Sbocconcellavano la veneziana stantia che era stata da poco distribuita. Non c’era stata punizione. In qualche modo la cosa l’aveva meravigliato. Ma, a pensarci bene, forse l’ammonizione era insita nel racconto di quel sogno. L’aveva impressionato.
     Ignorò la frecciatina di Claudio e si ficcò in bocca l’ultimo pezzetto di veneziana.
     - Dài, siamo nella stessa squadra - li incitò Claudio. – Andiamo a prendere gli scudi.
     - Eppure non mi convince - borbottò Daniele. - Quel sogno, dico.
     - Fregatene. Andiamo! - lo strattonò Daniele.
     Erano sudati, ansanti, un po’ abbacchiati per la sconfitta.
     Alberto Poncelli e Daniele, detto Dodo, si sedettero sotto l’ippocastano che rendeva meno squallido il fondo del campetto di calcio, dove un alto muro di calcestruzzo, come quello di un carcere, divideva l’oratorio dalla via adiacente. Intanto due squadre di ragazzi, evidentemente non stanchi del gioco precedente, avevano improvvisato una partita a pallone, arbitrata da un giovane educatore laico.
     - Io ho messo a segno cinque colpi - disse Daniele. - E sono rimasto in gara fino all’ultimo. Non mi hanno colpito… So maneggiare bene lo scudo. A te, invece, t’hanno beccato… ma solo negli ultimi minuti. Ti sei difeso bene.
     Alberto non fece commenti. Stava con lo sguardo a terra, le gambe raccolte sotto il mento.
     - Ti brucia la sconfitta, Albe? - domandò Daniele dopo un lungo silenzio.
     L’altro scosse il capo.
     - E allora che hai?
     Non rispose. Raccolse un sassolino e lo lanciò verso il campo da calcio, da cui veniva il vociare dei giocatori.
    - Non dirmi che è ancora per quella storia del canto.
    - Non è per quello.
     - E allora cosa…
     - Il sogno che ci ha raccontato don Livio.
     - Embè?
     - Ma non ti sei accorto?
     - Di che cosa?
     - Che era dedicato a noi… a noi due.
     Daniele esplose in una risata. - Già, un po’ l’ho pensato anch’io, a un certo punto. Ma chi se ne frega.
     Lo aveva raccontato molto bene. Don Livio, d’altra parte, aveva recitato diverse volte su un palcoscenico, soprattutto nella casa salesiana di Arese, da dove proveniva. Lo aveva confidato ai ragazzi di San Rocco e diceva che dal prossimo inverno avrebbe messo su una piccola compagnia filodrammatica dell’oratorio.
     - Non penso che sia un sogno, anzi penso che l’abbia inventato al momento.
     Daniele gli dedicò una smorfia di scetticismo. - Comunque sembrava proprio un sogno di Don Bosco.
     - Certo, lo stile era quello. Don Livio le sa, le cose, ed è bravo a raccontare. La storiella gli sarà venuta in mente in quei dieci minuti prima di andare in chiesa, dopo che ci ha impedito di fare la fuga.
     - Dici?
     - Dico. E la cosa mi conforta.
     - Ti dà sollievo il fatto che l’abbia inventata per l’occasione?
     - Sì.
     - Beh, sai che a ripensarci non hai tutti i torti - ammise Daniele. - L’idea che lui o Don Bosco avessero sognato quella situazione mi fa venire un po’ i brividi.
     - Invece, se se l’è inventata, intendeva spaventarci a mente lucida, perché ci guardassimo bene, la prossima volta, dal marinare la preghiera.
     Daniele scoppiò in una risata. - Già, ma io mi tengo sempre da parte quelle quattro sigarette da fumarci al solito posto. Lui può tenerci d’occhio fin che vuole, ma non può essere dappertutto. - Fece l’occhiolino all’amico. – A noi la preghiera non va, tutti i giorni, non è vero Albe?
     - Certo, Dodo, il prete non può essere dappertutto. Per questo ha voluto metterci in guardia con quella storiella.
     La quale storiella faceva davvero venire i brividi.
     Alberto rivedeva la scena nella penombra della chiesa. Il giovane religioso parlava con la sua voce calda e accattivante. Non si sentiva volare una mosca. Quei settanta, tra ragazzetti e bambini, erano seduti nei banchi, immobili e rigidi come statue.
     E don Livio aveva dimostrato come l’autore del sogno (lui stesso, un sacerdote qualsiasi, Don Bosco?) fosse angustiato per quei due ragazzi (naturalmente anonimi) che se ne stavano sempre soli, appartati. Più passava il tempo, più essi sfuggivano ad ogni relazione e ad ogni controllo. Mentre gli altri giocavano allegramente in gruppo, loro due rimanevano in disparte e per passare il tempo cavavano dalle loro tasche rospi, lucertole e bisce schifose. Il sacerdote cercava di richiamarli, di invitarli a integrarsi con gli altri. Ma loro nulla, anzi sghignazzavano con delle facce che sembravano musi di maiali. Poi veniva il momento di andare in chiesa a pregare. Il prete li scongiurava di seguirli. Ma niente da fare. Invece di avviarsi verso la chiesa, nella quale tutti gli altri stavano entrando, i due ragazzi si dirigevano dalla parte opposta. E allora si materializzava una porta, massiccia, illuminata da una strana luce rossastra. Poi si aprivano lentamente i battenti che lasciavano intravvedere lo svolgimento di un banchetto, anzi un baccanale che doveva essere molto divertente. I due si avviavano verso la porta, mentre il prete gridava, scongiurandoli di non entrare. Ma loro varcavano la soglia di buon grado e la porta si richiudeva alle loro spalle. E questa, prima di scomparire, diventava rossa e poi veniva divorata dalle fiamme.
     Alberto si alzò in piedi, con uno scatto.
     - Te ne vai?
     - Sì, Dodo, vado a chiedere a don Livio se ha veramente fatto quel sogno o se se l’è inventato al momento.
     - O se è di Don Bosco. Perché, sai… mi sembra proprio di quello stile.
     - E in tal caso farei una brutta figura. È questo che vuoi dire?
     - Certo, gli faresti capire che hai la coscienza sporca - fece Daniele con acume.
     Alberto stette un momento pensieroso. Invidiava Daniele perché non era problematico, era istintivo, amante della trasgressione. Proprio uno che se ne fregava. All’amico non veniva in mente di contestare, nemmeno di chiedere spiegazioni. Prendeva la vita così, come veniva, e se ne faceva un baffo di tutti quegli insegnamenti oratoriani. Eppure non era cattivo. E naturalmente esercitava su di lui un certo fascino. Sì lui, Alberto, si sentiva attirato dal compagno proprio perché lo compensava nei suoi tormenti e nelle sue paure. Poi disse:
     - Vado a bere un po’ d’acqua.
     L’altro si alzò a sua volta. - Vengo anch’io.
      - Forse hai ragione - borbottò Alberto, dando un calcio a un rametto secco di ippocastano. - La cosa è destinata a rimanere un mistero.
      Un grido: - La porta! Non entrate nella porta!
      Alberto si girò di scatto, rimanendo per un attimo impietrito.
      - Che c’è? - fece Daniele.
      - Niente.
      Nel campetto, stavano tirando una punizione. E l’arbitro, l’educatore laico, aveva gridato a due calciatori che avevano superato la linea di demarcazione fra i due pali, mettendosi quasi alle spalle del portiere.
     

    

venerdì 10 giugno 2016

QUANDO MORÌ LA MOGLIE DI CARLO MAGNO di Tommaso Di Brango

Un giorno Ildegarda, moglie di Carlo Magno, fu presa da un improvviso attacco di tosse. Sulle prime tutti, compresi i medici di corte, pensarono ad un raffreddamento passeggero, tanto che in effetti la consorte del sovrano prese anche a soffrire di raffreddore, e così nessuno si preoccupò più di tanto. Solo che poi, col passare del tempo, quei colpi di tosse e quel raffreddore si trasformarono in febbre, la febbre si trasformò in spossatezza e la spossatezza si trasformò in incapacità di muoversi.
Re Carlo seguì l’agonia dell’amata compagna con preoccupazione. Cercò in tutti i modi di capire cosa stesse accadendo, interrogò più e più volte i medici di corte e, visto che le loro diagnosi si mostravano ogni volta inadatte, ne chiamò altri, rivolgendosi infine anche a streghe e fattucchiere. Ma a nulla servirono i suoi sforzi ed un giorno, mentre i primi raggi del sole estivo colpivano il letto in cui l’amata Ildegarda giaceva, vide la sua compagna di vita spegnersi in silenzio.
Com’era normale che fosse, Re Carlo rimase molto scosso dall’avvenimento, e quelli che hanno assistito all’accaduto raccontano che non sembrava nemmeno più la stessa persona. Certo, la folta capigliatura scura del sovrano, attraversata da qualche non più piccola luce bianca, continuò ad accompagnare gli occhi chiari e la barba. E certo, le spalle del monarca continuarono ad essere quelle che avevano sostenuto mille e mille battaglie, costruendo un Impero che ambiva a replicare i fasti dell’antica Roma. Ma, nonostante tutto questo, era il piglio, il portamento, il modo di presentarsi di Re Carlo che non era più quello di una volta.
Si dice, anzi, che stesse sempre chiuso nella stanza in cui era venuta a mancare Ildegarda, che avesse preteso di tenere il suo corpo lì dentro, chiuso in una bara di cristallo, e che avesse imposto ai servitori di tenere sempre serrate finestre e tende della stanza, così da rimanere sempre al buio. Che cosa si aspettasse da un simile comportamento non è dato sapere: quel che è certo è che stava sempre al capezzale della moglie morta, assorto in lacrime e preghiere, come se quelle lacrime e quelle preghiere potessero avere la forza di riportarla in vita. E quest’andazzo durò per mesi, tanto che l’amministrazione dell’immenso Impero di Re Carlo passò, di fatto, nelle mani dei funzionari, e quando giunsero gli invasori dal Catai fu compito del maggiordomo di corte organizzare l’esercito.
Naturalmente il regno ed anche la guerra, senza il sovrano che aveva sconfitto i longobardi, non potevano essere la stessa cosa, ed alla fine dell’anno i guerrieri dagli occhi a mandorla erano arrivati ad assediare Parigi senza che Re Carlo, i cui occhi erano persi nel buio della camera da letto regale, ne sapesse nulla. Ma d’un tratto, un mattino, accadde una cosa imprevista. Un servitore di corte, infatti, nel fare le pulizie della stanza – cosa molto difficile, visto che doveva spostare ragnatele che non poteva vedere e togliere polvere di cui riusciva appena ad intuire l’esistenza – spostò inavvertitamente una tenda, ed un raggio di sole cadde sulla bara di cristallo in cui era rinchiusa Ildegarda. Così, per un attimo, l’occhio di Re Carlo non ebbe di fronte a sé il buio, ma l’immagine di quel che la sua amata compagna era nel frattempo diventata. E sulle prime il sovrano rimproverò il servitore, intimandogli con forza di fare più attenzione nei movimenti. Ma poco dopo, fermandosi e tornando alle sue lacrime ed alle sue preghiere, fu colto da un dubbio.
Era ancora sua moglie quella che il raggio di sole attirato inavvertitamente dal servitore gli aveva fatto vedere? Lui ricordava che Ildegarda aveva un volto geometrico, tondeggiante ma non rotondo, che sembrava essere uscito dal pennello di un pittore. E ricordava che le sue mani erano piccole e affusolate, fatte apposta per essere accarezzate e sorrette dalle sue, che invece erano grandi e slanciate. E ricordava anche che i capelli di Ildegarda erano mori e lunghi, e cadevano lisci sulle spalle dando al suo viso l’immagine che ha quello delle Madonnine nei santuari. C’era ancora qualcosa di tutto questo, in quel che aveva appena visto?
La luce del sole gli aveva fatto vedere che quei capelli non c’erano più, ed al posto del viso di luna di Ildegarda era rimasto un teschio nel quale non si agitavano nemmeno più – dal momento che avevano ormai finito di consumare tutte le risorse disponibili – animali d’ogni sorta. E poi le mani: quelle si erano ridotte ad un mucchietto d’ossa nemmeno troppo legate tra loro, incapaci di ricevere e di comunicare l’amore che un tempo avevano saputo trasmettere.
Re Carlo rimase per un po’ a pensare a tutte queste cose. Poi, d’un tratto, si alzò. Uscì dalla camera da letto, giunse a corte e chiese che il corpo di Ildegarda venisse trasferito nel cimitero di famiglia, nella tomba dove anche lui, al momento del trapasso, avrebbe voluto esser posto. Preso atto, poi, della disgraziata situazione militare del suo Impero, ringraziò il maggiordomo di corte per gli sforzi profusi, lo sollevò dall’incarico di comandante militare e si mise a guidare personalmente le sue truppe. Nel giro di tre mesi gli invasori del Catai tornarono in Oriente, giurando che non avrebbero mai più messo piede nelle terre di Re Carlo. Quest’ultimo, da parte sua, indisse una grande festa per celebrare la cacciata degli aggressori, e mentre la gente suonava, ballava e banchettava sotto i suoi occhi, ripensò ad un passo del Libro secondo di Samuele, in cui Davide, re degli ebrei, «danzava con tutte le sue forze davanti al Signore». Ma rimase solo un ricordo, a cui Re Carlo non diede alcun seguito.

venerdì 3 giugno 2016

ICARO di Peppe Murro

Era felice di essersi svegliato… allungò la mano e sentì la sua. Si voltò sul fianco, il bagliore morbido della luna disegnava nel buio le curve del suo corpo nudo. Lei dormiva, col lenzuolo appena impigliato sulle caviglie, a pancia in giù, una gamba leggermente piegata; guardò il suo viso disteso.
Avrebbe voluto carezzarla, appoggiarsi di nuovo al calore di quel corpo, ma temette di svegliarla…restò in silenzio ad osservare i giochi del chiarore e del respiro. Sentiva dentro una gioia indescrivibile, si sarebbe messo ad urlare per la felicità: erano insieme… insieme…!
Per quanto tempo aveva sognato e desiderato quel momento, quanto ne aveva patito l’assenza ! mio dio, com’è bella… fu la sola cosa che riuscì a pensare la prima volta che la vide. E tornò a pensarla ogni giorno, a coccolare progetti, a desiderare…non gli importava la distanza degli anni, non gli pesava la sua vecchiaia. Sognava di parlare con lei, di sfiorarle le mani, di abbracciarla…sognava di raccontarle le sue paure e i suoi sogni, sognava di farsi carezzare. E tornava stranamente un vecchio fuoco, una passione incontrollabile che per la prima volta non gli appariva oscena… forse così è l’amore, forse questo miracolo ridisegna i margini della vita: non era vecchio, non gli pesava.
E aveva custodito dentro di sé questo sogno, se l’era coccolato, talvolta aveva anche cercato di dirsi che era impossibile, ma lo proteggeva come proteggeva la vita di lei, facendo anche il clown ogni volta che la vedeva triste: forse era il suo sorriso di gioventù che lo incantava, forse il suo sguardo al cui fondo intravvedeva la sua stessa malinconia.
Ed ora, per un miracolo inatteso e sconosciuto erano lì, insieme, nello stesso letto, dentro la stessa notte… non riusciva a credere che fosse vero, ma il suo corpo nudo gli testimoniava la verità.
Non gli interessava neppure di saperlo, chiuse gli occhi più forte, come a non volersi risvegliare, se era un sogno.
Era così pieno di gioia che non riuscì a frenare la sua carezza… allungò la mano per sfiorare i suoi fianchi, benedisse il buio e il chiarore della luna, benedisse il suo sonno.
Pregustandone il calore, poggiò la mano dove i fianchi si incurvavano lievemente.
Fu allora che si risvegliò.
Non si vergognò dell’amore che aveva generato il sogno, ma, come un secondo Icaro, si sentì sconfitto, e perso, e ridicolo, come un vecchio che si innamora…. ridicolo fino a piangerne…