Il cielo è livido di pioggia.
Piccole pozze d’acqua riflettono il via vai delle persone in
transito sulla banchina.
Il treno, tra i gemiti convulsi dei freni e i fiotti di calore
sprigionati dal ronzante pulsare del suo cuore meccanico, si è appena fermato
in stazione.
Il giovane uomo con un agile balzo scende a terra, si guarda
attorno incurante delle gocce che, gelide, gli scivolano sul viso e come evanescenti
perle decorano la giacca scura della divisa prima di venire assorbite dal tessuto.
Annusa l’aria: “Tre anni!” esclama tra sé. “Sono tre anni che
manco da questa città ma il suo odore, il suo sapore, l’aria che l’avvolge è la
stessa di sempre. Quella che mi ha salutato quando sono partito” pensa, mentre un
nodo di malinconia gli stringe la gola.
Inspira profondamente quasi a volersi ubriacare di quel sapore
appena ritrovato, così intimo, così familiare, così struggente.
Afferra la ventiquattrore e a passo deciso si avvia verso
l’uscita.
Il piazzale antistante la stazione centrale lo accoglie con il
consueto traffico dell’ora di punta.
L’inclemenza del tempo, invece, ha scoraggiato le passeggiate a
piedi e solo poche persone infreddolite e nascoste dagli ombrelli camminano
spedite sui marciapiedi.
Perso nei suoi pensieri raggiunge il parcheggio dei taxi e quasi
meccanicamente entra nel primo della fila.
Stampandosi un’espressione di circostanza sul viso recita a memoria
l’indirizzo verso cui è diretto.
Il conducente solleva le mani dal volante e si gira, lo fissa
negli occhi per sincerarsi di aver capito bene: «ma è…»
«Lo so!» taglia corto l’uomo con tono educato ma deciso:
«Conosco bene la città, ci ho vissuto per qualche anno» aggiunge quasi a voler
mitigare la veemenza della sua affermazione.
L’autista, mentre riprende la giusta postura di guida, annuisce
col capo.
L’abisso di dolore che ha scorto tra le iridi scure del giovane
e la lunga cicatrice che gli deturpa i tratti del volto, lo intimidiscono.
Eppure quei lineamenti tesi che sembrano scolpiti nel granito
non gli sono sconosciuti. É convinto di averlo già visto. Ha una buona memoria,
ma nonostante i ripetuti tentativi, questa volta la sua mente si rifiuta di
collaborare.
L’uomo continua ad arrovellarsi nel tentativo di diradare il
velo di foschia in cui è confuso quel ricordo.
Senza replicare ingrana la marcia e si avvia in direzione del
luogo richiesto.
Il giovane in divisa scura accoglie con freddezza gli sguardi
che di sottecchi il conducente gli lancia dallo specchietto e, affondando
completamente nel sedile posteriore, posa la nuca sul poggiatesta, socchiude
gli occhi e…
…Il ronzio regolare del
motore rallenta improvviso mentre l’auto si incolonna per imboccare la stretta
rampa d’accesso dell’autostrada.
La marcia delle auto
procede a singhiozzi in un flusso ininterrotto, come sangue pompato nelle arterie
da un enorme cuore, finché dopo il casello la fila si fluidifica e scorre
veloce, ormai convogliata sul lungo serpentone di nero asfalto.
Un allegro cicaleccio si
ripropone alla mente. Volute di fumo accompagnano il gracchiare della
radiotrasmittente collegata alla centrale operativa mentre l’abitacolo si
ravviva di risate che si alternano a silenzi improvvisi”.
Rabbrividisce
nonostante il tepore che il condizionatore acceso produce all’interno della
vettura: “come le soste della Via Crucis” pensa tra sé.
Il mare ammicca lucente
oltre il guard-rail, l’aria è tersa e limpida, uliveti e fichi d’india scorrono
oltre il parabrezza in un’ordinata disposizione naturale.
Il sole è alto nel cielo e
i suoi raggi avvolgono la gioventù, l’entusiasmo, il pulsare di vita racchiusi
nell’auto blu che sfreccia veloce sull’asfalto rovente.
L’uomo alla guida osserva
il cruscotto ed esclama con sollievo: «Ancora una decina di chilometri ed il
turno è finito, il tempo di cambiarmi ed inizio lo straordinario».
«Ma non dovevi correre a
casa?» chiede perplesso il collega seduto al suo fianco.
«Appunto! Mio figlio mi
sta spettando per fare i compiti di matematica» replica l’uomo, e un lampo di
tenerezza e di orgoglio si accende negli occhi concentrati nella guida.
Sorride e, facendo
l’occhietto al compagno di lavoro, osserva lo specchietto retrovisore, si
schiarisce la voce assumendo un tono burbero: «Ehi, voi due là dietro, cosa
avete da complottare? Non è serio fare i piccioncini in servizio! Se non la
smettete vi farò rapporto!».
I due giovani seduti sul
sedile posteriore si interrompono osservandolo stupiti.
La prima ad aprire bocca
è la ragazza: «Ispettore, è colpa mia…» dice preoccupata, spalancando sull’uomo
due grandi occhi colore del miele.
«Non vedi che sta
scherzando?» La riprende il collega che le siede a fianco e senza farsi notare
le poggia, furtivamente, la mano sulla sua.
Alza gli occhi e,
convinto di incrociare lo sguardo di lei, increspa le labbra in un sorriso, ma
una luce intensa lo abbaglia.
Pensa che il sole sia
esploso in un enorme fuoco d’artificio e non fa in tempo a formulare il
pensiero che un boato assordante come l’eruzione di un vulcano gli esplode
nelle orecchie e la caduta in un tunnel buio ed infinito è l’ultima cosa che la
sua mente memorizza…
Il giovane non riesce a trattenere un gemito, quindi si porta le
mani sulla fronte ed inizia a massaggiarsi le tempie.
Il conducente della vettura interviene sollecito: «Si sente
male? Siamo quasi arrivati ma se vuole ci fermiamo alla prima farmacia».
«No… tutto bene… non c’è bisogno… la ringrazio» risponde l’uomo
cercando di nascondere il tremito della voce e osservando, come ipnotizzato, il
movimento dei tergicristalli.
Percorrono in silenzio ancora un paio di chilometri finché
l’auto accosta dolcemente al marciapiedi e si ferma.
Il giovane è molto pallido.
Scende e inspira intensamente, poi paga la corsa.
Si avvicina ad una bancarella e con calma, come se quel gesto
fosse il più importante della sua vita, sceglie dei fiori.
Un mazzo enorme, che a fatica riesce a tenere tra le braccia.
Colorato, come l’arcobaleno che sta uscendo da uno squarcio apertosi nel cielo
plumbeo, profumato e seducente, come la giovinezza. Vi nasconde il viso e imbocca
la strada principale. Pochi metri ed oltrepassato il pesante cancello in ferro
battuto, svolta nel piccolo vialetto laterale.
Non un rumore lacera la quieta immobile del luogo, solo un debole
sospiro di vento muove le cime dei cipressi secolari.
Accompagnato dallo scricchiolio dei suoi passi sull’acciottolato
il giovane in divisa avanza lentamente, alza lo sguardo e la vede.
Trattiene il respiro mentre lei gli sorride con sguardo birichino
da sotto il cappello d’ordinanza mettendo in mostra le fossette ai lati delle
guance. Con la mano alzata nel caratteristico saluto militare, ostenta fiera ed
orgogliosa la divisa in tutto simile a quella di lui.
Il giovane sente il cuore battere all’impazzata come se volesse uscirgli
dal petto.
Si inginocchia e le depone l’enorme mazzo di fiori davanti. Con
il palmo della mano, si sfiora la cicatrice cercando di cancellare le lacrime
che, insolenti e copiose, scendono a lambirgli le gote, poi allunga il braccio
e con i polpastrelli accarezza la fotografia.
Il contatto con il marmo gelido gli procura un brivido lancinante
e riaccende il dolore sordo e disperato, mai sopito, per il vuoto incolmabile
che lo accompagna, ormai, da quel giorno maledetto di tre anni prima.
Le parole fissate con caratteri dorati risaltano nitide sulla
lapide rosata e si incidono come un marchio rovente nella sua anima: “Una mano vigliacca ed assassina ha spento
per sempre il tuo sorriso e strappandoti a tutti noi che ti amavano ti ha
trasformata in un angelo del cielo.
I colleghi del servizio
scorte della Polizia di Stato”.
Fuori dal cimitero intanto il tassista è rimasto a pensare.
L’espressione malinconica del giovane cliente appena sceso e la dignità del suo
comportamento, la profonda sofferenza che ha letto nei suoi occhi, lo hanno
colpito e mentre l’osserva avviarsi verso la bancarella dei fiori un flash,
come il timido raggio di sole che accompagna lo splendore dell’arcobaleno
appena formatosi tra le nuvole gravide di pioggia, gli riporta alla mente un
articolo di giornale di qualche anno prima:
“Un grave attentato di
chiara matrice mafiosa ha versato, ancora, sangue innocente.
Eroi, loro malgrado, un
alto magistrato, il suo autista e quattro poliziotti di scorta caduti
nell’adempimento del loro dovere.
Servitori dello Stato che
con mezzi insufficienti, retribuzioni inadeguate e sacrifici personali, pagano
spesso con la vita, l’abnegazione profusa per garantire l’applicazione della
giustizia e il rispetto della legge.
L’alto magistrato è
rimasto dilaniato insieme al suo autista, dalla deflagrazione di una potente
carica di esplosivo al plastico nascosto sotto la sua auto.
L’attentato è costato la
vita anche a tre dei quattro poliziotti, tra cui una donna, che componevano la
scorta e che lo seguivano su un’altra vettura.
In condizioni disperate
il quarto agente sbalzato fuori dall’abitacolo dallo spostamento d’aria.
Attualmente, dopo una difficile e lunga operazione, è in coma nel reparto di
rianimazione del Policlinico. Se sopravvivrà rimarrà sfigurato.
L’ispettore lascia la
moglie ed un figlio in tenera età, mentre per l’agente sopravvissuto e la
poliziotta deceduta, quello dell’attentato sarebbe stato l’ultimo giorno di servizio
prima del loro matrimonio”.