giovedì 26 settembre 2019

IL FINE GIUSTIFICA I MEZZI di Paolo Secondini

Paolo Secondini
IL FINE GIUSTIFICA I MEZZI
Edizioni Linee Infinite

 
Si comunica l’avvenuta pubblicazione del romanzo giallo–poliziesco di  Paolo Secondini, IL FINE GIUSTIFICA I MEZZI, Linee Infinite Edizioni.
Il romanzo è ordinabile presso la propria libreria di fiducia; oppure (con un minimo di spese di spedizione) direttamente sul sito di Linee Infinite Edizioni (cliccando sulla copertina del libro e poi su Acquista)
https://www.lineeinfinite.com/

lunedì 16 settembre 2019

C’E’ UN SIGNORE CHE TI VUOLE di Giuseppe Novellino

    
Il 16 agosto 1978, giorno di San Rocco, era mercoledì.
Aria umida e calda stagnava nel fondovalle.  Pur con un cielo poco limpido, la giornata si poteva considerare bella. Si respirava in pieno l’atmosfera ferrogostana: pochi avevano ricominciato le loro attività lavorative.
Dopo averci pensato tutta la mattina, Giuseppe aveva preso la decisione. Sarebbe andato a casa di Aurelia.
Ora la meta era Lovero.
Procedeva a cavallo della sua Vespa bianca, lungo la statale. Non c’era molto traffico: più che altro auto di vacanzieri in entrambe le direzioni.
Durante quel viaggio di trenta chilometri, ogni tanto pensava che forse stava commettendo una fesseria. Presentarsi così, a casa di quella ragazza, richiedeva certamente una giustificazione. E quale poteva essere se non quella legata al nuovo sentimento che provava per lei? Qualsiasi altra sarebbe suonata del tutto falsa o puerile.
Si sentiva come colui che avesse imboccato un vicolo cieco. Pur pensando che all’ultimo momento avrebbe potuto non presentarsi alla porta di lei, si sentiva mosso da una strana forza interiore.
Non volle arrivare con lo scooter davanti all’abitazione di Aurelia. Decise di lasciarla nello spiazzo antistante il municipio.
Non c’era anima viva per le vie del paese. Era quella che nel meridione chiamano la controra, verso le tre. L’aria era particolarmente stagnante. Gli abiti si appiccicavano al corpo. Su un albero, dietro la villetta di Aurelia, cantava una cicala.
Mosso ormai da un coraggio che gli veniva dal profondo del suo essere, Giuseppe varcò il cancelletto e andò a suonare il campanello.
Il tempo che passò gli parve interminabile. Si sentì come sospeso in una dimensione che ospitava lui solo. Poi qualcuno venne ad aprire.
– Ciao – disse Giuseppe alla bambina (poteva avere sei anni), che lo guardava dal basso in alto.
– Chi sei? – fece lei con una vocina un po’ ovattata.
Il cuore gli pulsava a cento. Dopo un attimo di esitazione, disse:
– Sono un amico di Aurelia. È in casa?
Allora la bimba si girò verso la breve rampa di scale alla sua destra. – Tataaa! C’è un signore che ti vuole.
– Mi chiama Tata. È Micol, la mia nipotina – disse Aurelia. – Mi è molto affezionata.
Era trascora un’ora dall’arrivo di Giuseppe. Erano seduti sul muretto che delimitava il terreno che circondava la casetta. Micol giocava nell’erba con una bambolina e ogni tanto lanciava occhiate curiose sui due giovani.
Poco prima, Aurelia lo aveva presentato ai suoi genitori con allegra naturalezza. – È un mio carissimo amico di Sondrio. Mi ha fatto una sorpresa. – Poi, rivolta a lui: – Mi stavo davvero annoiando. Questo paese oggi è un mortuorio. Chi ha la baita se n’è andato in montagna. Solo noi stiamo qui a cuocere.
Era molto carina. Nonostante il caldo appariva fresca e briosa. Indossava una gonna lunga e un po’ stretta, abbinata a una camicetta bianca con il colletto di pizzo. I capelli ondulati le cadevano graziosamente sulle spalle. Una frangetta le copriva a tratti la fronte.
Poi disse – Se mi porti con la Vespa, ti faccio vedere il paese e i suoi dintorni.
– Okay – disse Giuseppe.
– Vado a mettermi i jeans. Aspettami qui con Micol.
Adesso correva lungo la statale, verso Sondrio. Giuseppe non si accorgeva di tenere una velocità piuttosto sostenuta, mentre i pensieri gli turbinavano nella mente. Ed erano pensieri estremamente positivi, fatti di allettanti prospettive e del ricordo di quel pomeriggio con Aurelia.
Gli aveva fatto yedere la chiesa dove era stata battezzata, i frutteti di suo padre, la contrada di Santa Maria e la chiesetta antica di Sant’Alessandro. Gli era apparsa gioiosa, e a un certo punto, prendendogli una mano, gli aveva detto: – Sono contenta che sei venuto a stanarmi da questo buco di paese. Ma… ti confesso che non me lo sarei mai aspettato.
Ma non era del tutto vero, secondo Giuseppe. Lei, forse, si aspettava che lui facesse una mossa come quella. Inconsciamente, Aurelia sapeva che “il carissimo amico di Sondrio” era destinato a diventare qualcosa di più che un amico.
Rallentò, sorridendo.
Il suo cuore si era calmato, cantava di gioia.
   

venerdì 6 settembre 2019

IN NOME DELLA LEGGE di Cinzia Baldini

Il cielo è livido di pioggia.
Piccole pozze d’acqua riflettono il via vai delle persone in transito sulla banchina.
Il treno, tra i gemiti convulsi dei freni e i fiotti di calore sprigionati dal ronzante pulsare del suo cuore meccanico, si è appena fermato in stazione.
Il giovane uomo con un agile balzo scende a terra, si guarda attorno incurante delle gocce che, gelide, gli scivolano sul viso e come evanescenti perle decorano la giacca scura della divisa prima di venire assorbite dal tessuto.
Annusa l’aria: “Tre anni!” esclama tra sé. “Sono tre anni che manco da questa città ma il suo odore, il suo sapore, l’aria che l’avvolge è la stessa di sempre. Quella che mi ha salutato quando sono partito” pensa, mentre un nodo di malinconia gli stringe la gola.
Inspira profondamente quasi a volersi ubriacare di quel sapore appena ritrovato, così intimo, così familiare, così struggente.
Afferra la ventiquattrore e a passo deciso si avvia verso l’uscita.
Il piazzale antistante la stazione centrale lo accoglie con il consueto traffico dell’ora di punta.
L’inclemenza del tempo, invece, ha scoraggiato le passeggiate a piedi e solo poche persone infreddolite e nascoste dagli ombrelli camminano spedite sui marciapiedi.
Perso nei suoi pensieri raggiunge il parcheggio dei taxi e quasi meccanicamente entra nel primo della fila.
Stampandosi un’espressione di circostanza sul viso recita a memoria l’indirizzo verso cui è diretto.
Il conducente solleva le mani dal volante e si gira, lo fissa negli occhi per sincerarsi di aver capito bene: «ma è…»
«Lo so!» taglia corto l’uomo con tono educato ma deciso: «Conosco bene la città, ci ho vissuto per qualche anno» aggiunge quasi a voler mitigare la veemenza della sua affermazione.
L’autista, mentre riprende la giusta postura di guida, annuisce col capo.
L’abisso di dolore che ha scorto tra le iridi scure del giovane e la lunga cicatrice che gli deturpa i tratti del volto, lo intimidiscono.
Eppure quei lineamenti tesi che sembrano scolpiti nel granito non gli sono sconosciuti. É convinto di averlo già visto. Ha una buona memoria, ma nonostante i ripetuti tentativi, questa volta la sua mente si rifiuta di collaborare.
L’uomo continua ad arrovellarsi nel tentativo di diradare il velo di foschia in cui è confuso quel ricordo.
Senza replicare ingrana la marcia e si avvia in direzione del luogo richiesto.
Il giovane in divisa scura accoglie con freddezza gli sguardi che di sottecchi il conducente gli lancia dallo specchietto e, affondando completamente nel sedile posteriore, posa la nuca sul poggiatesta, socchiude gli occhi e…
…Il ronzio regolare del motore rallenta improvviso mentre l’auto si incolonna per imboccare la stretta rampa d’accesso dell’autostrada.
La marcia delle auto procede a singhiozzi in un flusso ininterrotto, come sangue pompato nelle arterie da un enorme cuore, finché dopo il casello la fila si fluidifica e scorre veloce, ormai convogliata sul lungo serpentone di nero asfalto.
Un allegro cicaleccio si ripropone alla mente. Volute di fumo accompagnano il gracchiare della radiotrasmittente collegata alla centrale operativa mentre l’abitacolo si ravviva di risate che si alternano a silenzi improvvisi”.
 Rabbrividisce nonostante il tepore che il condizionatore acceso produce all’interno della vettura: “come le soste della Via Crucis” pensa tra sé.
Il mare ammicca lucente oltre il guard-rail, l’aria è tersa e limpida, uliveti e fichi d’india scorrono oltre il parabrezza in un’ordinata disposizione naturale.
Il sole è alto nel cielo e i suoi raggi avvolgono la gioventù, l’entusiasmo, il pulsare di vita racchiusi nell’auto blu che sfreccia veloce sull’asfalto rovente.
L’uomo alla guida osserva il cruscotto ed esclama con sollievo: «Ancora una decina di chilometri ed il turno è finito, il tempo di cambiarmi ed inizio lo straordinario».
«Ma non dovevi correre a casa?» chiede perplesso il collega seduto al suo fianco.
«Appunto! Mio figlio mi sta spettando per fare i compiti di matematica» replica l’uomo, e un lampo di tenerezza e di orgoglio si accende negli occhi concentrati nella guida.
Sorride e, facendo l’occhietto al compagno di lavoro, osserva lo specchietto retrovisore, si schiarisce la voce assumendo un tono burbero: «Ehi, voi due là dietro, cosa avete da complottare? Non è serio fare i piccioncini in servizio! Se non la smettete vi farò rapporto!».
I due giovani seduti sul sedile posteriore si interrompono osservandolo stupiti.
La prima ad aprire bocca è la ragazza: «Ispettore, è colpa mia…» dice preoccupata, spalancando sull’uomo due grandi occhi colore del miele.
«Non vedi che sta scherzando?» La riprende il collega che le siede a fianco e senza farsi notare le poggia, furtivamente, la mano sulla sua.
Alza gli occhi e, convinto di incrociare lo sguardo di lei, increspa le labbra in un sorriso, ma una luce intensa lo abbaglia.
Pensa che il sole sia esploso in un enorme fuoco d’artificio e non fa in tempo a formulare il pensiero che un boato assordante come l’eruzione di un vulcano gli esplode nelle orecchie e la caduta in un tunnel buio ed infinito è l’ultima cosa che la sua mente memorizza…
Il giovane non riesce a trattenere un gemito, quindi si porta le mani sulla fronte ed inizia a massaggiarsi le tempie.
Il conducente della vettura interviene sollecito: «Si sente male? Siamo quasi arrivati ma se vuole ci fermiamo alla prima farmacia».
«No… tutto bene… non c’è bisogno… la ringrazio» risponde l’uomo cercando di nascondere il tremito della voce e osservando, come ipnotizzato, il movimento dei tergicristalli.
Percorrono in silenzio ancora un paio di chilometri finché l’auto accosta dolcemente al marciapiedi e si ferma.
Il giovane è molto pallido.
Scende e inspira intensamente, poi paga la corsa.
Si avvicina ad una bancarella e con calma, come se quel gesto fosse il più importante della sua vita, sceglie dei fiori.
Un mazzo enorme, che a fatica riesce a tenere tra le braccia. Colorato, come l’arcobaleno che sta uscendo da uno squarcio apertosi nel cielo plumbeo, profumato e seducente, come la giovinezza. Vi nasconde il viso e imbocca la strada principale. Pochi metri ed oltrepassato il pesante cancello in ferro battuto, svolta nel piccolo vialetto laterale.
Non un rumore lacera la quieta immobile del luogo, solo un debole sospiro di vento muove le cime dei cipressi secolari.
Accompagnato dallo scricchiolio dei suoi passi sull’acciottolato il giovane in divisa avanza lentamente, alza lo sguardo e la vede.
Trattiene il respiro mentre lei gli sorride con sguardo birichino da sotto il cappello d’ordinanza mettendo in mostra le fossette ai lati delle guance. Con la mano alzata nel caratteristico saluto militare, ostenta fiera ed orgogliosa la divisa in tutto simile a quella di lui.
Il giovane sente il cuore battere all’impazzata come se volesse uscirgli dal petto.
Si inginocchia e le depone l’enorme mazzo di fiori davanti. Con il palmo della mano, si sfiora la cicatrice cercando di cancellare le lacrime che, insolenti e copiose, scendono a lambirgli le gote, poi allunga il braccio e con i polpastrelli accarezza la fotografia.
Il contatto con il marmo gelido gli procura un brivido lancinante e riaccende il dolore sordo e disperato, mai sopito, per il vuoto incolmabile che lo accompagna, ormai, da quel giorno maledetto di tre anni prima.
Le parole fissate con caratteri dorati risaltano nitide sulla lapide rosata e si incidono come un marchio rovente nella sua anima: “Una mano vigliacca ed assassina ha spento per sempre il tuo sorriso e strappandoti a tutti noi che ti amavano ti ha trasformata in un angelo del cielo.
I colleghi del servizio scorte della Polizia di Stato”.
Fuori dal cimitero intanto il tassista è rimasto a pensare. L’espressione malinconica del giovane cliente appena sceso e la dignità del suo comportamento, la profonda sofferenza che ha letto nei suoi occhi, lo hanno colpito e mentre l’osserva avviarsi verso la bancarella dei fiori un flash, come il timido raggio di sole che accompagna lo splendore dell’arcobaleno appena formatosi tra le nuvole gravide di pioggia, gli riporta alla mente un articolo di giornale di qualche anno prima:
“Un grave attentato di chiara matrice mafiosa ha versato, ancora, sangue innocente.
Eroi, loro malgrado, un alto magistrato, il suo autista e quattro poliziotti di scorta caduti nell’adempimento del loro dovere.
Servitori dello Stato che con mezzi insufficienti, retribuzioni inadeguate e sacrifici personali, pagano spesso con la vita, l’abnegazione profusa per garantire l’applicazione della giustizia e il rispetto della legge.
L’alto magistrato è rimasto dilaniato insieme al suo autista, dalla deflagrazione di una potente carica di esplosivo al plastico nascosto sotto la sua auto.
L’attentato è costato la vita anche a tre dei quattro poliziotti, tra cui una donna, che componevano la scorta e che lo seguivano su un’altra vettura.
In condizioni disperate il quarto agente sbalzato fuori dall’abitacolo dallo spostamento d’aria. Attualmente, dopo una difficile e lunga operazione, è in coma nel reparto di rianimazione del Policlinico. Se sopravvivrà rimarrà sfigurato.
L’ispettore lascia la moglie ed un figlio in tenera età, mentre per l’agente sopravvissuto e la poliziotta deceduta, quello dell’attentato sarebbe stato l’ultimo giorno di servizio prima del loro matrimonio”.
 

 

mercoledì 4 settembre 2019

PROCOLO di Paolo Secondini

«Messer Ubaldo, che cosa succede? Per quale motivo tante persone sono raccolte davanti alla chiesa di San Procolo?»
«Non vedete, messer Ludovico? Assistono allo scoprimento di una lapide.»
«Già! Sulla monumentale facciata di una delle chiese più belle di Bologna… A chi è dedicata la lapide?»
«A Procolo, il vecchio campanaro.»
«A Procolo?... Il campanaro della chiesa… di San Procolo?»
«Esattamente!... Ma tacete, vi prego. Si avvicina il momento solenne. Ancora pochissimi istanti… Ecco, ci siamo!»
La lapide venne scoperta, tra il battimano dei presenti.
«C’è una iscrizione,» disse messer Ludovico.  «Vi spiacerebbe leggerla, voi che avete la vista migliore della mia?»
E Ubaldo, con voce tranquilla:
«Si procul a Proculo Proculi campana fuisset, nunc procul a Proculo Proculus ipse foret.»
«Ma…»
«È latino.»
«Lo avevo intuito. Non capisco però che cosa vuol dire.» Una pausa; poi: «So che siete persona assai colta, un insigne professore: vorreste cortesemente tradurmi l’iscrizione?»
E Ubaldo, con molta pazienza:
«Se la campana di San Procolo fosse stata lontana da Procolo, ora lo stesso Procolo sarebbe lontano da San Procolo.»
«Ho compreso ancor meno.»
Ubaldo lo fissò stupito.
«Come? Ignorate la storia del vecchio campanaro?» chiese. «Già, dimenticavo!... Voi vivete a Bologna da pochissimo tempo. Non potete conoscerla.»
«Ma non vi nascondo che sono curioso di saperla.»
«Adesso?»
«Quale momento più adatto?»
Ubaldo annuì lentamente.
«Avete ragione… L’iscrizione riferisce il tragico fatto capitato a Procolo, il quale, mentre suonava le campane, fu colpito alla testa da una di esse. Morì all’istante. Com’era doveroso, il suo corpo fu tumulato nei sotterranei della chiesa di San Procolo, dalla quale, come si legge sulla lapide, il campanaro non ebbe più modo di allontanarsi, proprio come la campana non era riuscita a stare lontana da lui.»