giovedì 12 dicembre 2019

RECENSIONI di G. Novellino e P. Murro

Paolo Secondini
IL FINE GIUSTIFICA I MEZZI
Linee Infinite Edizioni
 
Il maresciallo dei Carabinieri Vincenzo Cargiulli comanda una piccola caserma di provincia. Ha avuto una donna, nella sua vita, ma ora è solo e trascorre l’esistenza vicino alla sorella Adalgisa. Lei lo chiama Vincenzino, come faceva la mamma quando erano bambini.
Egli svolge con interesse e dedizione il suo lavoro di tutore della legge e sa che anche in un paesino sperduto può succedere di tutto.
È la vigilia di Natale. Fuori fa freddo, mentre gli interni sonno surriscaldati in modo malsano. Nella villa dell’avvocato Emilio Trenelli è stato consumato un efferato omicidio. Proprio lui, il titolare, è stato trovato riverso nel suo letto con un coltellaccio da cucina piantato nella schiena fino al manico. Ma non ci sono segni di effrazione, quindi il fattaccio deve avere come autore una persona conosciuta dall’avvocato. Il quale ha qualche vizietto, che offusca un po’ la sua immagine di professionista appartenente all’alta borghesia. Gli piacciono le donne, ma ha un’inclinazione un po’ perversa per quelle di malaffare, prosperose e un tantino rozze.
Elisa Deretti, la moglie, è una signora avvenente, distinta e un po’ freddina. Con lei il maresciallo ha subito un incontro che gli consente di capire il modo di vivere della coppia e l’andamento familiare. Nelle indagini è aiutato dal fido e solerte appuntato Frinieri. Doverosa concessione al genere narrativo, essendo ogni investigatore accompagnato da un socio o da un subalterno sempre pronto a fornire i dovuti supporti.
Anche l’indagine segue i canoni consueti della narrazione poliziesca, ma cattura fin dall’inizio l’attenzione del lettore, che si lascia accompagnare da una prosa fluida e precisa, capace di rendere assai vivide alcune caratterizzazioni psicologiche e ambientali.
Il romanzo (Linee Infinite Edizioni – 2019) si legge tutto d’un fiato. Voltare le pagine è come mangiare ciliegie mature, dove al posto del sapore ci sono la curiosità (tenuta viva con grande maestria) e il desiderio di svelare il mistero.
Buon giallo, non lungo, incisivo e piacevole. Con qualche ammiccamento al grande Simenon.
C’è da dire, però, che centosedici pagine non bastano per creare un forte legame tra il lettore e il maresciallo Vincenzo Cargiulli, un tipo di uomo dai marcati contrasti caratteriali, nel complesso mite e un po’ ironico. Aspettiamo altre sue avventure, non solo per conoscerlo meglio, ma anche per apprezzare la vena narrativa di Paolo Secondini… che già per questo romanzo mi sembra notevole.
  Giuseppe Novellino da: Art – Litteram


…Il fine giustifica i mezzi è un bel romanzo di genere che si lascia leggere d’un fiato, con un andamento lineare e un ritmo incalzante, tutto racchiuso nelle ore di vigilia di un Natale qualsiasi di un qualsiasi paesino d’Italia. Con una scrittura lieve e precisa e un’estrema pulizia lessicale, Paolo Secondini ci accompagna nelle indagini del maresciallo Cargiulli e, con sentimento e ironia, verso la conclusione inaspettata del caso di omicidio di cui lo stesso si occupa. La trama non è monocorde, ma si gioca tutta con una serie di figure ben tratteggiate, dal senzatetto Lappi allo zelante appuntato Frinieri, dal loquace barbiere Alfredo Barba-capelli alla escort Elvira Benedetti, dalla vedova Deretti alla saggia cameriera Antonietta Filangia: tutti personaggi con una loro specifica identità e logica, perfettamente inseriti in una vicenda ben delineata…


 Peppe Murro


 (Il romanzo lo si può acquistare ordinandolo in qualsiasi libreria o direttamente dalla casa editrice Linee Infinite Edizioni   https://www.lineeinfinite.com/)

mercoledì 4 dicembre 2019

SAGGEZZA ANTICA di Paolo Secondini

“Impara l’arte e mettila da parte!”
A sentirle pronunciare da mio nonno, quelle parole – quando il loro significato non mi era ancora chiaro – sembravano quasi uno scioglilingua o, anche, una breve composizione poetica in rima baciata.
 “Impara l’arte e mettila da parte!”
Quante volte ho ascoltato quella frase!
E sempre dalla bocca del nonno, la cui espressione, nel proferirla, era di grande serietà, e solenne il tono della voce. Allora intuivo che stesse dicendo qualcosa di importante.
Spesso, dopo aver sillabato quelle parole, egli scuoteva un istante la testa, come per annuire, sicuramente, a qualcuno di cui, all’improvviso, l’immagine fosse affiorata alla sua mente.
Certe volte, invece, lo sentivo borbottare:
Tempi duri! Tempi difficili!”
E subito dopo, come al solito:
Impara l’arte e mettila da parte!”
Chissà perché, in quel momento, ripensavo alla vita lavorativa di mio nonno: garzone di cordaio ad Atina, suo paese natale, negli anni della giovinezza; operaio in una fabbrica di stoffe a Utica, nello Stato di New York; attore di teatro, per un breve periodo di tempo, su palcoscenici di piccoli paesi.
Ripensavo, anche, alla sua drammatica esperienza di combattente nel primo conflitto mondiale: fante sul fronte francese; alla sua successiva attività di pittore di paesaggi, figure umane e animali, grazie alla quale, affrescando pareti di locali pubblici e case private, o semplicemente dipingendo piccole tele o tavole di compensato riusciva a guadagnare il bastante per vivere dignitosamente.
“Impara l’arte e mettila da parte!”
Un giorno, d’un tratto – ero ancora un ragazzo –, il senso di quelle parole, tante volte ascoltate, mi fu chiaro, perfettamente intelligibile.
«Già!» mi dissi. «Impara l’arte e mettila da parte, per poterla esercitare quand’è necessario e, soprattutto, per dar senso e decoro alla propria vita.»
 

 

 

venerdì 1 novembre 2019

ASPETTANDO AURELIA di Giuseppe Novellino


     Aspettavano Aurelia per la cena.
     Quella sera di ottobre doveva venire lei a casa di Giuseppe, perché era malato. Una brutta tracheite lo aveva costretto a prendere tre giorni di congedo per malattia. Ma alle 19.20 non si era ancora fatta viva. Mezz’ora prima Giuseppe aveva telefonato alla Scuola Infermieri, nel caso fosse rimasta sul posto di lavoro per qualche problema. Niente. Aveva risposto la direttrice, dicendo che Aurelia era andata a casa regolarmente poco prima delle 18.00.
     Perché, dunque, non  si faceva ancora vedere?
     Giuseppe era sulle spine.
     La ragazza non aveva il telefono nell’appartamentino in via Don Bosco. E lui non poteva muoversi di casa per la malattia.
     – Vedrai che arriverà – cercava di tranquillizzarlo la madre.
     – Ma sapeva che saremmo andati a tavola a un quarto alle otto. Non è da lei fare questo ritardo.
     Giuseppe non riusciva a stare fermo. Ciabattava da un locale all’altro con grande nervosismo. Ogni tanto guardava dalla finestra, con la speranza di vedere la sua ragazza camminare sul vialetto.
     – Perché non arriva? – disse tra sé a voce alta, scostando per l’ennesima volta la tendina. Poi la tosse lo costrinse a sedersi sul divano.
     – Quasi vado a vedere se è a casa sua – fece dopo un po’, alzandosi di scatto.
     – Non fare fesserie – lo avvertì suo padre. – Ti verrebbe una polmonite.
     – Ma vado con la macchina…
     La mamma si affacciò sulla porta della cucina. Aveva una faccia preoccupata, forse più per lo stato del figlio, che per il ritardo della ragazza. Disse a sua volta:
     – Avrà avuto qualche contrattempo.
     – Ma perché non mi ha avvisato? – disse Giuseppe con un tono esasperato. – Io il telefono ce l’ho in casa.
     Era veramente in ansia. Cominciava a fare brutti pensieri. Si sentiva abbandonato da quella ragazza con la quale si era fidanzato da un paio di mesi. Troppo poco tempo per un legame solido. Forse lei si era dimenticata dell’appuntamento perché cominciava ad essere stanca di lui. Eppure il giorno prima si erano lasciati con un bacio tenero e lunghissimo. Lei gli teneva le braccia intorno al collo e lo guardava con una passione che le rendeva luminosissimo lo sguardo.
     In quel momento suonarono alla porta.
     Giuseppe si precipitò ad aprire.
     La figura sorridente del fratello Lorenzo gli procurò una fitta di delusione.
     – Sto tornando a casa adesso dall’ospedale (era medico da poco assunto come assistente) e ho pensato di farvi un salutino. Anna (la moglie) mi ha detto che ceneremo solo verso le otto e mezza perché è andata a Poggi, dai suoi.
     – Allora cadi a proposito! – esclamò Giuseppe.
     Gli chiese se poteva andare a casa di Aurelia, per vedere se erà là.
     Lorenzo apparve imbarazzato. – Ma mi farai fare una brutta figura. O, meglio, la farai tu. Se la trovo, s’intende.
     – Già – rincarò papà – le farai prendere coscienza della tua debolezza.
     – Non mi interessa – sbottò Giuseppe. – Confesso di essere agitato, ma non è da lei comportarsi così. Forse le è successo qualcosa.
     – E se non la trovo in casa? – domandò Lorenzo.
     Giuseppe rabbrividì e non rispose.
 
     Arrivarono insieme mezz’ora dopo. La cena era pronta in tavola e si stava raffreddando.
     Lei era raggiante, bella più che mai. Gli si buttò al collo e gli sussurrò in un orecchio:
     – Mi sono addormentata sul divano.
     Poi Giuseppe venne a sapere tutto, dal resoconto che il fratello fece con un pizzico di divertimento.
     Si era trovato davanti alla porta semiaperta. Aveva chiesto permesso, senza ricevere alcuna risposta. Allora era entrato. Solo una lampada era accesa nel piccolo soggiorno. Aurelia era rannicchiata sul divano e dormiva. Era vestita di tutto punto, pronta per uscire.
     – Già – soggiunse lei. – Ero stanca morta. Avevo lavato i capelli e mi ero cambiata. Ma poi, vedendo che era ancora presto, mi sono messa un po’sul divano… e mi venuto un colpo di sonno.
     Gli altri risero di gusto.
     Giuseppe sospirava.
    

giovedì 26 settembre 2019

IL FINE GIUSTIFICA I MEZZI di Paolo Secondini

Paolo Secondini
IL FINE GIUSTIFICA I MEZZI
Edizioni Linee Infinite

 
Si comunica l’avvenuta pubblicazione del romanzo giallo–poliziesco di  Paolo Secondini, IL FINE GIUSTIFICA I MEZZI, Linee Infinite Edizioni.
Il romanzo è ordinabile presso la propria libreria di fiducia; oppure (con un minimo di spese di spedizione) direttamente sul sito di Linee Infinite Edizioni (cliccando sulla copertina del libro e poi su Acquista)
https://www.lineeinfinite.com/

lunedì 16 settembre 2019

C’E’ UN SIGNORE CHE TI VUOLE di Giuseppe Novellino

    
Il 16 agosto 1978, giorno di San Rocco, era mercoledì.
Aria umida e calda stagnava nel fondovalle.  Pur con un cielo poco limpido, la giornata si poteva considerare bella. Si respirava in pieno l’atmosfera ferrogostana: pochi avevano ricominciato le loro attività lavorative.
Dopo averci pensato tutta la mattina, Giuseppe aveva preso la decisione. Sarebbe andato a casa di Aurelia.
Ora la meta era Lovero.
Procedeva a cavallo della sua Vespa bianca, lungo la statale. Non c’era molto traffico: più che altro auto di vacanzieri in entrambe le direzioni.
Durante quel viaggio di trenta chilometri, ogni tanto pensava che forse stava commettendo una fesseria. Presentarsi così, a casa di quella ragazza, richiedeva certamente una giustificazione. E quale poteva essere se non quella legata al nuovo sentimento che provava per lei? Qualsiasi altra sarebbe suonata del tutto falsa o puerile.
Si sentiva come colui che avesse imboccato un vicolo cieco. Pur pensando che all’ultimo momento avrebbe potuto non presentarsi alla porta di lei, si sentiva mosso da una strana forza interiore.
Non volle arrivare con lo scooter davanti all’abitazione di Aurelia. Decise di lasciarla nello spiazzo antistante il municipio.
Non c’era anima viva per le vie del paese. Era quella che nel meridione chiamano la controra, verso le tre. L’aria era particolarmente stagnante. Gli abiti si appiccicavano al corpo. Su un albero, dietro la villetta di Aurelia, cantava una cicala.
Mosso ormai da un coraggio che gli veniva dal profondo del suo essere, Giuseppe varcò il cancelletto e andò a suonare il campanello.
Il tempo che passò gli parve interminabile. Si sentì come sospeso in una dimensione che ospitava lui solo. Poi qualcuno venne ad aprire.
– Ciao – disse Giuseppe alla bambina (poteva avere sei anni), che lo guardava dal basso in alto.
– Chi sei? – fece lei con una vocina un po’ ovattata.
Il cuore gli pulsava a cento. Dopo un attimo di esitazione, disse:
– Sono un amico di Aurelia. È in casa?
Allora la bimba si girò verso la breve rampa di scale alla sua destra. – Tataaa! C’è un signore che ti vuole.
– Mi chiama Tata. È Micol, la mia nipotina – disse Aurelia. – Mi è molto affezionata.
Era trascora un’ora dall’arrivo di Giuseppe. Erano seduti sul muretto che delimitava il terreno che circondava la casetta. Micol giocava nell’erba con una bambolina e ogni tanto lanciava occhiate curiose sui due giovani.
Poco prima, Aurelia lo aveva presentato ai suoi genitori con allegra naturalezza. – È un mio carissimo amico di Sondrio. Mi ha fatto una sorpresa. – Poi, rivolta a lui: – Mi stavo davvero annoiando. Questo paese oggi è un mortuorio. Chi ha la baita se n’è andato in montagna. Solo noi stiamo qui a cuocere.
Era molto carina. Nonostante il caldo appariva fresca e briosa. Indossava una gonna lunga e un po’ stretta, abbinata a una camicetta bianca con il colletto di pizzo. I capelli ondulati le cadevano graziosamente sulle spalle. Una frangetta le copriva a tratti la fronte.
Poi disse – Se mi porti con la Vespa, ti faccio vedere il paese e i suoi dintorni.
– Okay – disse Giuseppe.
– Vado a mettermi i jeans. Aspettami qui con Micol.
Adesso correva lungo la statale, verso Sondrio. Giuseppe non si accorgeva di tenere una velocità piuttosto sostenuta, mentre i pensieri gli turbinavano nella mente. Ed erano pensieri estremamente positivi, fatti di allettanti prospettive e del ricordo di quel pomeriggio con Aurelia.
Gli aveva fatto yedere la chiesa dove era stata battezzata, i frutteti di suo padre, la contrada di Santa Maria e la chiesetta antica di Sant’Alessandro. Gli era apparsa gioiosa, e a un certo punto, prendendogli una mano, gli aveva detto: – Sono contenta che sei venuto a stanarmi da questo buco di paese. Ma… ti confesso che non me lo sarei mai aspettato.
Ma non era del tutto vero, secondo Giuseppe. Lei, forse, si aspettava che lui facesse una mossa come quella. Inconsciamente, Aurelia sapeva che “il carissimo amico di Sondrio” era destinato a diventare qualcosa di più che un amico.
Rallentò, sorridendo.
Il suo cuore si era calmato, cantava di gioia.
   

venerdì 6 settembre 2019

IN NOME DELLA LEGGE di Cinzia Baldini

Il cielo è livido di pioggia.
Piccole pozze d’acqua riflettono il via vai delle persone in transito sulla banchina.
Il treno, tra i gemiti convulsi dei freni e i fiotti di calore sprigionati dal ronzante pulsare del suo cuore meccanico, si è appena fermato in stazione.
Il giovane uomo con un agile balzo scende a terra, si guarda attorno incurante delle gocce che, gelide, gli scivolano sul viso e come evanescenti perle decorano la giacca scura della divisa prima di venire assorbite dal tessuto.
Annusa l’aria: “Tre anni!” esclama tra sé. “Sono tre anni che manco da questa città ma il suo odore, il suo sapore, l’aria che l’avvolge è la stessa di sempre. Quella che mi ha salutato quando sono partito” pensa, mentre un nodo di malinconia gli stringe la gola.
Inspira profondamente quasi a volersi ubriacare di quel sapore appena ritrovato, così intimo, così familiare, così struggente.
Afferra la ventiquattrore e a passo deciso si avvia verso l’uscita.
Il piazzale antistante la stazione centrale lo accoglie con il consueto traffico dell’ora di punta.
L’inclemenza del tempo, invece, ha scoraggiato le passeggiate a piedi e solo poche persone infreddolite e nascoste dagli ombrelli camminano spedite sui marciapiedi.
Perso nei suoi pensieri raggiunge il parcheggio dei taxi e quasi meccanicamente entra nel primo della fila.
Stampandosi un’espressione di circostanza sul viso recita a memoria l’indirizzo verso cui è diretto.
Il conducente solleva le mani dal volante e si gira, lo fissa negli occhi per sincerarsi di aver capito bene: «ma è…»
«Lo so!» taglia corto l’uomo con tono educato ma deciso: «Conosco bene la città, ci ho vissuto per qualche anno» aggiunge quasi a voler mitigare la veemenza della sua affermazione.
L’autista, mentre riprende la giusta postura di guida, annuisce col capo.
L’abisso di dolore che ha scorto tra le iridi scure del giovane e la lunga cicatrice che gli deturpa i tratti del volto, lo intimidiscono.
Eppure quei lineamenti tesi che sembrano scolpiti nel granito non gli sono sconosciuti. É convinto di averlo già visto. Ha una buona memoria, ma nonostante i ripetuti tentativi, questa volta la sua mente si rifiuta di collaborare.
L’uomo continua ad arrovellarsi nel tentativo di diradare il velo di foschia in cui è confuso quel ricordo.
Senza replicare ingrana la marcia e si avvia in direzione del luogo richiesto.
Il giovane in divisa scura accoglie con freddezza gli sguardi che di sottecchi il conducente gli lancia dallo specchietto e, affondando completamente nel sedile posteriore, posa la nuca sul poggiatesta, socchiude gli occhi e…
…Il ronzio regolare del motore rallenta improvviso mentre l’auto si incolonna per imboccare la stretta rampa d’accesso dell’autostrada.
La marcia delle auto procede a singhiozzi in un flusso ininterrotto, come sangue pompato nelle arterie da un enorme cuore, finché dopo il casello la fila si fluidifica e scorre veloce, ormai convogliata sul lungo serpentone di nero asfalto.
Un allegro cicaleccio si ripropone alla mente. Volute di fumo accompagnano il gracchiare della radiotrasmittente collegata alla centrale operativa mentre l’abitacolo si ravviva di risate che si alternano a silenzi improvvisi”.
 Rabbrividisce nonostante il tepore che il condizionatore acceso produce all’interno della vettura: “come le soste della Via Crucis” pensa tra sé.
Il mare ammicca lucente oltre il guard-rail, l’aria è tersa e limpida, uliveti e fichi d’india scorrono oltre il parabrezza in un’ordinata disposizione naturale.
Il sole è alto nel cielo e i suoi raggi avvolgono la gioventù, l’entusiasmo, il pulsare di vita racchiusi nell’auto blu che sfreccia veloce sull’asfalto rovente.
L’uomo alla guida osserva il cruscotto ed esclama con sollievo: «Ancora una decina di chilometri ed il turno è finito, il tempo di cambiarmi ed inizio lo straordinario».
«Ma non dovevi correre a casa?» chiede perplesso il collega seduto al suo fianco.
«Appunto! Mio figlio mi sta spettando per fare i compiti di matematica» replica l’uomo, e un lampo di tenerezza e di orgoglio si accende negli occhi concentrati nella guida.
Sorride e, facendo l’occhietto al compagno di lavoro, osserva lo specchietto retrovisore, si schiarisce la voce assumendo un tono burbero: «Ehi, voi due là dietro, cosa avete da complottare? Non è serio fare i piccioncini in servizio! Se non la smettete vi farò rapporto!».
I due giovani seduti sul sedile posteriore si interrompono osservandolo stupiti.
La prima ad aprire bocca è la ragazza: «Ispettore, è colpa mia…» dice preoccupata, spalancando sull’uomo due grandi occhi colore del miele.
«Non vedi che sta scherzando?» La riprende il collega che le siede a fianco e senza farsi notare le poggia, furtivamente, la mano sulla sua.
Alza gli occhi e, convinto di incrociare lo sguardo di lei, increspa le labbra in un sorriso, ma una luce intensa lo abbaglia.
Pensa che il sole sia esploso in un enorme fuoco d’artificio e non fa in tempo a formulare il pensiero che un boato assordante come l’eruzione di un vulcano gli esplode nelle orecchie e la caduta in un tunnel buio ed infinito è l’ultima cosa che la sua mente memorizza…
Il giovane non riesce a trattenere un gemito, quindi si porta le mani sulla fronte ed inizia a massaggiarsi le tempie.
Il conducente della vettura interviene sollecito: «Si sente male? Siamo quasi arrivati ma se vuole ci fermiamo alla prima farmacia».
«No… tutto bene… non c’è bisogno… la ringrazio» risponde l’uomo cercando di nascondere il tremito della voce e osservando, come ipnotizzato, il movimento dei tergicristalli.
Percorrono in silenzio ancora un paio di chilometri finché l’auto accosta dolcemente al marciapiedi e si ferma.
Il giovane è molto pallido.
Scende e inspira intensamente, poi paga la corsa.
Si avvicina ad una bancarella e con calma, come se quel gesto fosse il più importante della sua vita, sceglie dei fiori.
Un mazzo enorme, che a fatica riesce a tenere tra le braccia. Colorato, come l’arcobaleno che sta uscendo da uno squarcio apertosi nel cielo plumbeo, profumato e seducente, come la giovinezza. Vi nasconde il viso e imbocca la strada principale. Pochi metri ed oltrepassato il pesante cancello in ferro battuto, svolta nel piccolo vialetto laterale.
Non un rumore lacera la quieta immobile del luogo, solo un debole sospiro di vento muove le cime dei cipressi secolari.
Accompagnato dallo scricchiolio dei suoi passi sull’acciottolato il giovane in divisa avanza lentamente, alza lo sguardo e la vede.
Trattiene il respiro mentre lei gli sorride con sguardo birichino da sotto il cappello d’ordinanza mettendo in mostra le fossette ai lati delle guance. Con la mano alzata nel caratteristico saluto militare, ostenta fiera ed orgogliosa la divisa in tutto simile a quella di lui.
Il giovane sente il cuore battere all’impazzata come se volesse uscirgli dal petto.
Si inginocchia e le depone l’enorme mazzo di fiori davanti. Con il palmo della mano, si sfiora la cicatrice cercando di cancellare le lacrime che, insolenti e copiose, scendono a lambirgli le gote, poi allunga il braccio e con i polpastrelli accarezza la fotografia.
Il contatto con il marmo gelido gli procura un brivido lancinante e riaccende il dolore sordo e disperato, mai sopito, per il vuoto incolmabile che lo accompagna, ormai, da quel giorno maledetto di tre anni prima.
Le parole fissate con caratteri dorati risaltano nitide sulla lapide rosata e si incidono come un marchio rovente nella sua anima: “Una mano vigliacca ed assassina ha spento per sempre il tuo sorriso e strappandoti a tutti noi che ti amavano ti ha trasformata in un angelo del cielo.
I colleghi del servizio scorte della Polizia di Stato”.
Fuori dal cimitero intanto il tassista è rimasto a pensare. L’espressione malinconica del giovane cliente appena sceso e la dignità del suo comportamento, la profonda sofferenza che ha letto nei suoi occhi, lo hanno colpito e mentre l’osserva avviarsi verso la bancarella dei fiori un flash, come il timido raggio di sole che accompagna lo splendore dell’arcobaleno appena formatosi tra le nuvole gravide di pioggia, gli riporta alla mente un articolo di giornale di qualche anno prima:
“Un grave attentato di chiara matrice mafiosa ha versato, ancora, sangue innocente.
Eroi, loro malgrado, un alto magistrato, il suo autista e quattro poliziotti di scorta caduti nell’adempimento del loro dovere.
Servitori dello Stato che con mezzi insufficienti, retribuzioni inadeguate e sacrifici personali, pagano spesso con la vita, l’abnegazione profusa per garantire l’applicazione della giustizia e il rispetto della legge.
L’alto magistrato è rimasto dilaniato insieme al suo autista, dalla deflagrazione di una potente carica di esplosivo al plastico nascosto sotto la sua auto.
L’attentato è costato la vita anche a tre dei quattro poliziotti, tra cui una donna, che componevano la scorta e che lo seguivano su un’altra vettura.
In condizioni disperate il quarto agente sbalzato fuori dall’abitacolo dallo spostamento d’aria. Attualmente, dopo una difficile e lunga operazione, è in coma nel reparto di rianimazione del Policlinico. Se sopravvivrà rimarrà sfigurato.
L’ispettore lascia la moglie ed un figlio in tenera età, mentre per l’agente sopravvissuto e la poliziotta deceduta, quello dell’attentato sarebbe stato l’ultimo giorno di servizio prima del loro matrimonio”.
 

 

mercoledì 4 settembre 2019

PROCOLO di Paolo Secondini

«Messer Ubaldo, che cosa succede? Per quale motivo tante persone sono raccolte davanti alla chiesa di San Procolo?»
«Non vedete, messer Ludovico? Assistono allo scoprimento di una lapide.»
«Già! Sulla monumentale facciata di una delle chiese più belle di Bologna… A chi è dedicata la lapide?»
«A Procolo, il vecchio campanaro.»
«A Procolo?... Il campanaro della chiesa… di San Procolo?»
«Esattamente!... Ma tacete, vi prego. Si avvicina il momento solenne. Ancora pochissimi istanti… Ecco, ci siamo!»
La lapide venne scoperta, tra il battimano dei presenti.
«C’è una iscrizione,» disse messer Ludovico.  «Vi spiacerebbe leggerla, voi che avete la vista migliore della mia?»
E Ubaldo, con voce tranquilla:
«Si procul a Proculo Proculi campana fuisset, nunc procul a Proculo Proculus ipse foret.»
«Ma…»
«È latino.»
«Lo avevo intuito. Non capisco però che cosa vuol dire.» Una pausa; poi: «So che siete persona assai colta, un insigne professore: vorreste cortesemente tradurmi l’iscrizione?»
E Ubaldo, con molta pazienza:
«Se la campana di San Procolo fosse stata lontana da Procolo, ora lo stesso Procolo sarebbe lontano da San Procolo.»
«Ho compreso ancor meno.»
Ubaldo lo fissò stupito.
«Come? Ignorate la storia del vecchio campanaro?» chiese. «Già, dimenticavo!... Voi vivete a Bologna da pochissimo tempo. Non potete conoscerla.»
«Ma non vi nascondo che sono curioso di saperla.»
«Adesso?»
«Quale momento più adatto?»
Ubaldo annuì lentamente.
«Avete ragione… L’iscrizione riferisce il tragico fatto capitato a Procolo, il quale, mentre suonava le campane, fu colpito alla testa da una di esse. Morì all’istante. Com’era doveroso, il suo corpo fu tumulato nei sotterranei della chiesa di San Procolo, dalla quale, come si legge sulla lapide, il campanaro non ebbe più modo di allontanarsi, proprio come la campana non era riuscita a stare lontana da lui.»